Il discorso di Craxi alla Camera il 10 agosto ’76, alla nascita del famoso governo Andreotti della «non sfiducia» che vedeva per la prima volta i comunisti entrare nella maggioranza.

Di fronte ai risultati elettorali del 1976 nei quali al Pci non riuscì il sorpasso ma ottenne un grande risultato (34,37%), la Dc si consolidò (con il 38,71%) mentre il Psi fu ridotto al 9,64%, Moro elaborò la teoria dei “due vincitori” e la conseguente linea dell’unità nazionale, nella quale, però, il Pci era ammesso o all’astensione e poi nella maggioranza, non al governo.

Camera dei Deputati

Seduta di Martedì 10 Agosto 1976

Presidenza del Presidente Ingrao indi dei Vicepresidenti Rognoni e Mariotti

PRESIDENTE. È  iscritto a parlare l’on. Craxi. Ne ha facoltà.

CRAXI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole Presidente del Consiglio, il voto di astensione che è già stato espresso al Senato lo sarà naturalmente anche di fronte alla Camera, secondo un orientamento verso il quale il partito e i gruppi parlamentari socialisti si erano indirizzati già sulla base degli elementi politici e delle idee per un programma fornitici dal Presidente incaricato e dopo aver accertato l’inesistenza, allo stato delle cose, di altemative politiche concrete.

[…] Onorevoli colleghi, ho letto che oltre Atlantico si è riesumato il fantasma di Gottwald e di tragiche esperienze, che certo non si possono cancellare e che del resto si sono rinnovate, e viene proposta una analisi politica dei fatti nuovi verificatisi nel comunismo occidentale secondo un parametro che fa un salto all’indietro di trent’anni, nel contesto dell’Europa orientale occupata dall’armata rossa e comunque tanto diverso dal quadro dell’odierna Europa occidentale.

È  un’analisi che non condividiamo. In ogni caso, francamente, va sottolineato che non abbiamo proposto alla democrazia cristiana di affidare il Ministero della difesa’ all’onorevole Boldrini, o il Ministero del’l’interno all’onorevole Natta, richiedendo per loro un diritto di accesso che, guarda caso, i socialisti non hanno mai avuto, mentre semmai hanno potuto godere del privilegio non di controllare, ma di essere controllati dai servizi speciali che da questi ministeri dipendono.

Al contrario, caldeggiavamo la possibilità e l’utilità di dar vita ad una maggioranza parlamentare, ad un programma collegialmente espresso, ad impegni vincolanti per tutti, oppure, in una ipotesi ancora minore, ad un accordo programmatico contrattato esplicitamente.

Si sarebbero, penso, ottenuti risultati meno fluttuanti, si sarebbe compiuto un atto di solidarietà e di unità nazionale che avrebbe avuto il significato di una grande prova di maturità e di consapevolezza democratica: per un paese come il nostro, che da anni ormai va facendo acrobazie sull’orlo di periodici collassi, non sarebbe stato né poco né vano.

La democrazia cristiana ci ha opposto un rifiuto graduato, lasciando poi alle attività diplomatiche il compito di attenuarne i possibili contraccolpi negativi.

Certo comprendiamo, se non tutte, alcune delle molte difficoltà tra le quali si destreggia l’onorevole Zaccagnini, ma noi possiamo dire, più di altri, che ogni partito democratico è chiamato a pagare, nei momenti decisivi della vita. del paese, un suo proprio tributo, anche al prezzo di una ripresa delle polemiche interne e di dolorose lacerazioni.

La democrazia cristiana è stata protagonista di un processo di rivitalizzazione, che ha risucchiato voti sulla destra missina e ha devastato l’area dei partiti laici minori.

Ha ottenuto un risultato – per dirla con le parole che l’amico Biasini ha pronunciato al consiglio nazionale del partito repubblicano – che ne accresce la solitudine, ne inasprisce le contraddizioni interne, ne accentua la crisi di identità, giacché in essa non si avverte solamente la contrapposizione tradizionale tra l’e due anime, quella moderata e quella popolare, ma l’emergere di componenti che si collegano alla società civile, coltivando ipotesi ‘Giscardiane’.

E tuttavia la democrazia cristiana non può non porsi il problema politico di questa legislatura, delle sue prospettive che devono essere costruttive degli equilibri possibili.

Una risposta non può venire dal puro e semplice recupero socialista, che‘ è poi il secondo corno del teorema italiano di Kissinger, come ha appena avvertito il collega Granelli ‘in un articolo su Il Popolo dedicato alla questione socialista.

Se potessi affidarmi, nella interpretazione del voto di astensione del partito socialdemocratico, alle voci che caldeggiano un riavvicinamento al partito socialista in luogo della tradizionale polemica tra i due partiti, dovrei dedurne che l’idea di un recupero di un quadro, politico tradizionale non incontra solo la nostra opposizione.

Ai capi dei Governi amici ed alleati, che si sono occupati attivamente delle nostre cose saranno – penso – rintronate le orecchie, tanto acute e corali sono state le reazioni che le loro grossolane interferenze hanno suscitato nel nostro paese.

Le correzioni, le smentite, i silenzi imbarazzati, le precipitose marce all’indietro cui abbiamo assistito in queste settimane (ultima in ordine di tempo la nota della Casa Bianca verso l’iniziativa chiarificatrice promossa dal senato degli Stati Uniti) non sono valsi a cancellare la sgradevole impressione che i piccoli Metternich di Portorico abbiano discusso del nostro paese come se non si trattasse di una grande nazione, ma di una coIonia di altri tempi.

Nel suo ultimo numero, il settimanale londinese New Statesman definisce questo fatto una ingerenza nella sovranità italiana ed un grottesco tradimento, per lo meno, da parte dei fratelli tedeschi ed. inglesi, del partito. socialista italiano.

E un giudizio brutale, ma certamente non si può non condividere l’opinione del New Statesman, quando in altre parti dell’articolo si chiede ironicamente se davvero il Governo inglese si senta nella posizione di poter dettare a chicchessia le condizioni di un prestito internazionale e se .non si sia reso conto di aver partecipato al gioco al rialzo dell’anticomunismo elettorale tra Ford e Reagan.

Questo gioco al rialzo, probabilmente, è stato fatto a proprio tornaconto anche dal cancelliere tedesco in vista di una competizione elettorale che si annuncia difficile, ma nella quale il grande partito dei lavoratori tedeschi e di Willy Brandt, la SPD, ha molte carte da giocare per ottenere la conferma del suo primato senza bisogno che uno dei suoi leaders ricorra ad espedienti di questa sorta.

Anche nel caso della Germania c’è da chiedersi su quali basi si fondi un atteggiamento siffatto, che ostenta di ignorare la necessità, per la Germania, di buone e strette relazioni con l’Italia, se non altro per il fatto che il mercato italiano è il secondo o il terzo, in ordine di importanza, per le esportazioni tedesche ed è più redditizio, dal punto di vista economico, dello stesso mercato americano.

In proposito, vorrei ripetere alla Camera ciò che ho già avuto occasione di dire al Presidente Andreotti nel corso delle consultazioni per la formazione del nuovo Governo; e cioè che non sono consentiti silenzi, reticenze o sottovalutazioni: a questo mondo è servo solo chi vuol esserlo, e noi abbiamo a cuore l’indipendenza della politica estera del nostro paese almeno quanto la sua libertà.

Ma l’episodio rimane significativo anche perché ci riconduce a due temi di fondo della nostra posizione internazionale e della politica estera italiana, che il Governo non può non sentire in tutta la loro importanza: il problema dell’unità europea e la nostra posizione nell’alleanza atlantica.

L’unità europea va vista in una prospettiva di aumento dell’indipendenza e del peso politico dei paesi europei, nei confronti della politica mondiale e in una linea di progressiva apertura verso i paesi del Mediterraneo.

Quest’ultima area è tuttora gravida di tensioni: la questione palestinese resta tutt’altro che risolta; il massacro di libanesi e palestinesi continua dopo 55 inutili tregue; permane la tensione fra i paesi arabi (l’ultimo episodio di tale situazione è l’accusa del Cairo a Tripoli di ammassare sul suo territorio ingenti quantitativi di armi di provenienza sovietica);

La ferita di Cipro è tuttora pericolosamente aperta. Da questo insieme deriva un quadro denso di pericoli, assai lontano da quell’idea di un Mediterraneo pacifico che è certamente nelle aspirazioni di tutti i popoli rivieraschi, se non proprio di tutti i governi.

E la domanda sul ruolo dell’Europa in questo contesto, rischia di essere meramente retorica: quel ruolo è pressoché nullo, anzi, per taluni aspetti, negativo.

Ma lo scadimento in politiche di dimensione meramente regionale, la conseguente condizione subalterna dei paesi e il rischio di interferenze di tipo imperialistico possono trovare un antidoto in una nuova coscienza europea, in nuove istituzioni, quali potrebbero scaturire da una benefica reazione all’attuale stato di decadenza, reazione di cui non ‘mancano segni rivelatori.

Beninteso; penso ad un’unità reale e non ad una fondata su un rapporto di dominio di alcuni paesi sugli altri.

L’alleanza atlantica è il fulcro della difesa europea e tale rimarrà, in assenza di alternative valide. Quell’alleanza si presenta come un patto fra Stati determinati a salvaguardare le libertà dei loro popoli, la loro comune eredità e la loro civiltà fondata sui principi della democrazia, delle libertà individuali, del regno del diritto.

La verità è che troppo spesso c’è stato un divario tra le enunciazioni e l’attuazione di tali principi, noi chiediamo, cioè che nell’alleanza atlantica l’Italia non sia considerata solo oggetto di protezione, ma soggetto partecipe di una libera associazione; che l’alleanza non si presti ad essere uno strumento di ingerenza degli, Stati più forti su quelli considerati più deboli.

Ciò che noi chiediamo, in sostanza, è quanto dovrebbe stare a cuore a tutto il Parlamento: un ruolo non subalterno dell’Italia rispetto ai suoi alleati; un effettivo potere di iniziativa nel processo di distensione e di cooperazione internazionale: una riorganizzazione sul piano politico e organizzativo delle sue pur limitate strutture di elaborazione e di attuazione della politica estera.

Non ‘dovremmo aver bisogno di avvocati difensori stranieri in questa materia, specie se questi si chiamano Breznev che – con tutto il rispetto dovuto al capo di un grande paese – rappresenta pur sempre il massimo teorico di quella sovranità limitata che egli stesso ha attuato otto anni or sono, sulla pelle del partito comunista e del popolo cecoslovacchi.

Comunque, nonostante gli ostacoli e le resistenze, la prospettiva di fondo che mantiene per noi immutata la sua validità è quella di un’Europa unita e indipendente, senza consoli o direttori, alleata degli Stati Uniti ed amica dell’Unione Sovietica.

Le elezioni europee (che speriamo possano aver luogo nel 1978, una volta superate le difficoltà e sciolte le riserve che ancora permangono, rappresentano un appuntamento fondamentale non solo per quello che è stato chiamato I’eurosocialismo, e che è la forza politica più consistente del nostro continente, ma anche e forse a maggior ragione per la ricerca, come la definisce il compagno Berlinguer, in cui è attualmente impegnato l’eurocomunismo.

Qualche osservatore, riferendosi al processo di revisione in corso in un importante settore del comunismo occidentale, e di cui il partito comunista italiano è il protagonista di maggior rilievo, ha usato l’espressione silenziosa già riferita all’esperienza di Bad Godesberg, intendendo riferirsi alla carta con la quale la socialdemocrazia tedesca sancì, nel 1959, il suo distacco dal marxismo come ideologia ufficiale, così come oggi il partito comunista starebbe attuando il suo distacco dal leninismo.

Il nostro apprezzamento sui singoli passi fatti in direzione di questa revisione, come nel senso di una tendenza autonomistica rispetto a quella che per mezzo secolo è stata la centrale e la guida dei movimento comunista internazionale è stato ed è positivo.

Consideriamo il partito comunista per quello che è e che ha saputo essere: un partito cioè che rappresenta una parte importante del popolo lavoratore. E lo giudichiamo anche secondo il suo contributo alla. vita democratica del nostro paese.

Siamo interessati a che il processo avviato si sviluppi coerentemente e riteniamo che, se ciò avverrà, si determineranno sempre maggiori fattori di novità positiva non solo in Italia, ma in molti paesi europei e nell’insieme dell’Europa occidentale.

Certo, sono anch’io del parere, espresso anche recentemente dal compagno De Martino, che occorrerà del tempo, dopo che la revisione sarà stata condotta alle sue conseguenze sul piano dei principi, prima che possa modificarsi la natura storica del partito comunista, si da risultare adeguata ai nuovi principi che esso professa.

E tuttavia, ragionando con mente aperta e critica di fronte ai fatti della storia, è giusto attenersi alla semplice verità per la quale la violenza genera la violenza e non la libertà, il terrore è il terrore e non una via per la giustizia, ma altresì il buon uso della libertà genera la liberà, e la democrazia, quando si radica negli animi e nel costume, genera la democrazia.

Abbiamo fatto, per quel che ci riguarda, ciò che ci era parso giusto, ciò che ci era sembrato essere il nostro dovere verso la democrazia allo scopo di far cadere una discriminazione, che è caduta. Ora ciascun partito è posto di fronte, in maniera chiara e con maggiore autonomia alle proprie responsabilità.

Abbiamo combattuto e contrastiamo le chiusure tipiche di una posizione egemone non per aprire la strada ad un’altra egemonia. Consideriamo importanti le convergenze unitarie e le possibilità attuali e future di obiettivi comuni tra le forze della sinistra, pur in presenza di strategie non identiche.

Ma, colleghi, sentiamo anche e fortemente la necessità dello sviluppo autonomo di una forza socialista, che si atteggi in maniera tutt’altro che rassegnata e subalterna nei confronti dell’eurocomunismo;

una forza che ricavi sempre più la sua identità dai filoni più attuali e più vivi della sua tradizione; da quella scuola riformista che fece capo ,ad un grande socialista lombardo, dalla critica che ai limiti e alle debolezze di quella esperienza mossero le più acute intelligenze del pensiero socialista e democratico meridionalista, dalla sintesi preveggente del socialismo liberale di Carlo Rosselli, dal rigore ,dei gruppi che concepirono la Resistenza come rivoluzione democratica, dalla coerenza dell’antifascismo socialista, dall’insegnamento che si può trarre dalle ricche e molteplici esperienze del socialismo europeo occidentale, democratico e gradualista, in un confronto non imitativo e superficiale, ma critico e disponibile.

Non vogliamo battere le strade né del socialismo della miseria, né del socialismo ‘della burocrazia, quel neofeudalesimo burocratico di cui parlava il filosofo ungherese Lukms.

La nostra strada vuole essere quella di un socialismo moderno che non volti le spalle al problema fondamentale della nostra ’civiltà, che è quello di far avanzare ad un tempo la giustizia sociale, la libertà politica e la efficienza produttiva; di una forza socialista autonoma che sia impegnata nella fondamentale ricerca di conciliazione tra i valori del cristianesimo e i valori umani e liberatori di cui si è fatto portatore nella sua storia il movimento socialista.

Ci aiuterà, io spero, la rigorosa verifica programmatica condotta assieme ai partiti laici, interessati come siamo a superare, se possibile, le polemiche del passato e a stabilire un rapporto nuovo, così come ci aiuterà il terreno comune, per quel tratto importante che ci lega al radicalismo socialista.

E aperto il dialogo con la democrazia cristiana o almeno, con quella parte di essa che mostra di comprendere che siamo alle prese con un capitolo nuovo e diverso della storia del nostro paese.

[…] Spero che finalmente sarà possibile affrontare in radice i mali dei nostri servizi di sicurezza, che sono; o sono stati, lo scandalo degli scandali; screditati e sospettati dei peggiori. crimini contro lo Stato.

Ricordo che anni fa, quando apparve la definizione strage di Stato se ne parlò come di una bestemmia, il frutto di una fantasia attraversata da incubi giallo-politici.

Oggi è assai diffusa l’opinione che le cose sono andate, se non proprio così, certo in qualche modo assimilabile, ma non si sa come, ne si sa chi sia. stato. Far luce nel passato è il tributo. Che la democrazia deve a tante vittime innocenti.

Occorre organizzare i controlli per l’avvenire senza che questo vada- a scapito dei compiti istituzionali dei servizi, ma. Solo e principalmente per impedire che essi tornino, per una tentazione. che potrebbe investire anche gli uomini nuovi, che sono necessari alle deviazioni multiformi ed al servizio di mille bandiere.[…]

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