QUEL CHE CI DICE LA RAGIONE

Walled Off Hotel Pillow Fight by Banksy
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Gli amici di Israele devono farsi promotori della pace.

È oramai evidente che, da soli, israeliani e palestinesi non sono in grado di giungere all’unica soluzione negoziale possibile: il ritiro di Israele, coloni inclusi, dai territori occupati nel 1967 in cambio non della mera pace, ma – cosa spesso sottaciuta – della rinuncia dei palestinesi al ritorno dei profughi del 1948 (cui pure avrebbero diritto secondo il diritto internazionale). Ciò che principalmente ostacola questo esito è il fatto che rinunciare alle colonie per Israele significa esporsi al rischio della guerra civile. Solo un intervento dall’esterno, che costringa Israele a scegliere tra ritirare truppe e coloni dai territori occupati nel 1967 o rinunciare al sostegno incondizionato degli Stati Uniti e dei loro alleati, potrebbe cambiare la posizione israeliana. Qualsiasi appello alla soluzione dei due Stati che non preveda espressamente lo smantellamento delle colonie israeliane e la rinuncia al ritorno dei profughi palestinesi è un mero esercizio retorico.

Se si rifiuta la soluzione negoziale a due Stati, residuano due alternative: o l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania o la trasformazione di Israele in uno Stato binazionale. La prima alternativa implica la pulizia etnica della Palestina storica dai circa cinque milioni di palestinesi che vi abitano attualmente: ciò comporterebbe una violazione del diritto internazionale così clamorosa da escludere – si spera – possa avere l’avallo degli stessi amici di Israele. La seconda alternativa implica ritenere che, a causa delle colonie costruite da Israele, la commistione tra i due popoli è oramai inestricabile: in questa prospettiva, i palestinesi dovrebbero lottare per divenire cittadini d’Israele a pieno titolo, sebbene per Israele ciò significherebbe rinunciare all’ideale dello Stato ebraico e sancire la fine del sionismo (vale a dire, una rinuncia ancora più radicale della rinuncia ai territori occupati nel 1967).”

«UNA VOLTA IN PALESTINA ERAVAMO FRATELLI»,

11 Ottobre 2023

di Ali Rashid

Corre il tempo, e cambiano i contenuti essenziali, le idee, i concetti e sensi. E’ compiuto il processo di trasvalutazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.

Vivo è in me il racconto di mio nonno, che andava a Safad in Galilea per comprare il fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita dalla inquisizione in Portogallo, e che impararono la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.

Il ricordo di Khaiem, socio del mio nonno nella cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica ma continuava a mandare la sua parte del guadagno della impresa finché non morì.

Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma io ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello in America, un mio stimatissimo zio una settimana fa a New York mentre la salma del mio nonno giace in un cimitero affollato ad Amman.

Nelle case di pietra fatte a mano del mio bellissimo villaggio Lifta confinante con Gerusalemme, stanno per costruire un villaggio per i ricchi turisti , mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che fuggivano dal fascismo e dal nazismo che discriminava e annientava gli ebrei nella inenarrabile tragedia dell’Olocausto.

Dio è morto con tutti i valori che ci rendono uguali. Trionfante è l’affermazione della volontà di potenza che affida alla tecnica i propri fini e diventa l’intima essenza dell’essere in un mondo disincantato.

Eppure una volta eravamo tutti fratelli.

Stiamo scivolando tutti nel Nulla, nella mancanza di senso.

E la ragione? La pietà? La misericordia per i vivi e per i morti? La convivenza? Il rispetto? Il diritto?

Ma chi non ha un aereo di guerra sofisticato e moderno o un carro armato deve solo piangere in eterno il suo destino? Deve morire in silenzio?

Come in una “discarica”,sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediatamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo addottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita.

Ma questa catena di morte è inarrestabile?

Eppure una volta eravamo fratelli e abbiamo provato la ricchezza e i vantaggi della convivenza e del rispetto reciproco.

Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia del finto stato nazionale con confini discriminatori sempre più stretti e selettivi e in nome di fasulle razze e convenienze, di banali appartenenze e schieramenti.

La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano a dire no alla guerra! Non siamo condannati a farci a pezzi rassicurando tutti per un proprio futuro!

Non dobbiamo discriminare i vivi e i morti.

«UNA VOLTA IN PALESTINA ERAVAMO FRATELLI», INTERVISTA AD ALI RASHID

27-10-2023 – di: Loris Campetti

Per molti anni in Italia la causa palestinese ha avuto un nome: Ali Rashid. È stato primo segretario della delegazione generale palestinese, nei fatti l’ambasciatore di un popolo senza Stato.

Eravamo in un’altra stagione, in cui i palestinesi rappresentavano la parte più avanzata del mondo arabo e, pur tra una guerra e l’altra, tra i raid e le occupazioni israeliane, la politica veniva prima delle armi, se non altro le governava. E l’Italia aveva a cuore la causa palestinese.

Giorni fa, Ali ha messo nero su bianco la sua disperazione in una riflessione il cui titolo esplicita la sua utopia che bombe e missili stanno frantumando: «Eppure una volta eravamo fratelli».

Ricordo la passione con cui socializzava il suo sogno, uno stato laico democratico capace di accogliere tutti, vittime di ieri e di oggi, al di là delle fedi e delle razze.

E ancora oggi, dentro la macelleria in atto a Gaza e dopo la strage di Hamas, non ha cambiato idea, ma considera con amarezza: «Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia di un delirio che si chiama Stato-nazione, segnato da confini che discriminano in nome di razze che non esistono e appartenenze funzionali all’esercizio del potere. La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano di dire no alla guerra. Nessuno ci ha condannato a farci a pezzi anche se ci assicurano che questo avviene per il nostro futuro. Perché nella guerra non ci sono più, se mai ci sono stati, vincitori e vinti. Perché la violenza segna chi la subisce e chi la fa». Nel 2006 Rashid è stato eletto parlamentare nel gruppo di Rifondazione comunista.

Ho raggiunto telefonicamente Ali Rashid ad Amman, la città dov’è nato da una famiglia scacciata da Lifta, un villaggio alle porte di Gerusalemme, dall’esercito israeliano nel pieno delle sue funzioni: «La pulizia etnica». Parliamo di quel che resta della Striscia di Gaza.

«Come in una discarica, a Gaza sono finiti gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli e grandi massacri. Lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte città nelle vicinanze di Gaza, teatro degli eccidi compiuti da noi palestinesi in una catena di orrori che sembra inarrestabile. Oggi la situazione è terribile, uomini, donne e bambine muoiono sotto le bombe israeliane, muore l’umanità, si muore di fame, di sete, di malattie, di disperazione, le incubatrici si spengono perché non c’è elettricità e altri bambini muoiono, crollano case, ospedali, chiese. Forse che le loro vite valgono meno di quelle dei bimbi israeliani uccisi dalla stessa follia?»

Come rispondono le popolazioni arabe a questa strage degli innocenti? Che succede ad Amman?

«Ci sono gigantesche manifestazioni. In piazza scendono i palestinesi ma anche i giordani, per una volta uniti nell’indignazione. Devo dire che i giordani che protestano sono più con Hamas di quanto lo siano i palestinesi, preoccupati per il destino del loro popolo. Tutto il mondo arabo, dal Medioriente al Nordafrica sta protestando, a Damasco, Tehran, Baghdad, in Marocco, Libano, Yemen, la rabbia è esplosa persino in Oman e in Bahrein. La rabbia monta anche contro gli Stati uniti e la loro politica di sostegno a Netanyahu. La protesta generale è anche contro i regimi arabi pronti alla pace con Tel Aviv senza neppure prendere in considerazione la causa palestinese. Tieni conto che le tv arabe 24 ore su 24 mandano in onda servizi e immagini terribili».

L’attacco di Hamas sembra aver ricompattato Israele dopo mesi di proteste popolari contro il Governo di destra.

«In quelle proteste non c’era il problema palestinese, sembrava andar bene a tutti la repressione quotidiana dei palestinesi così come il moltiplicarsi delle colonie, nell’illusione collettiva di avere una vita normale dentro i propri confini. Ognuno nella sua gabbia, quella di Israele dorata e l’altra maledetta. Dice un sondaggio pubblicato dai giornali israeliani che la fiducia nel Governo è scesa al 38%, ma al tempo stesso il 64% chiede che la guerra contro di noi continui».

Nell’inferno di questi giorni vedi qualche segnale positivo?

«La manifestazione degli ebrei democratici americani, sono giovani, di sinistra, chiedono umanità e la fine dell’occupazione, si vergognano per i crimini israeliani. È un fatto straordinario che me li fa sentire fratelli».

Pensi che la tua utopia, uno Stato democratico e accogliete abbia ancora senso?

«Perché, pensi che abbia più spazio oggi l’idea di due Stati indipendenti? Chi lo pensa cerca una scorciatoia: la striscia di Gaza è lunga 47 chilometri e ammassa 2,3 milioni di persone costrette a vivere come bestie braccate, non vedo per loro un futuro. Ora solo il 22% del territorio palestinese, Cisgiordania più Gaza, è palestinese, si fa per dire. Se sottrai lo spazio occupato dalle colonie scende al 16%, abitato da prigionieri. Ma non sono così ingenuo da non rendermi conto che lo Stato democratico resta la strada più difficile».

Sei tornato al villaggio delle tue origini, Lifta?

«Torno spesso, non questa volta perché i confini sono sbarrati».

In Eppure una volta eravamo fratelli, Ali ha scritto: «Ogni volta che torno penso a mio nonno che andava a Safad in Galilea per comprare un foulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita all’inquisizione in Portogallo, avevano imparato la tessitura della seta dagli arabi in Spagna. Mi ricordo Khaiem, socio di mio nonno in una cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica, ma continuò a mandare alla mia famiglia in esilio la parte del guadagno dell’impresa finché non morì. Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello negli Stati Uniti, un mio caro zio una settimana fa a New York, mentre la salma di mio nonno giace in un anonimo cimitero di Amman. Al posto delle case di pietra scolpite a mano nel mio bel villaggio di Lifta stanno costruendo un villaggio per ricchi turisti, mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che scappavano dal fascismo e dal nazismo che li discriminava e li annientava nella tragedia dell’Olocausto»

Tra i palestinesi c’è chi, come Alì Rashid, primo segretario della delegazione generale palestinese in Italia (ambasciatore di un popolo senza stato): «Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia di un delirio che si chiama stato-nazione, segnato da confini che discriminano in nome di razze che non esistono e appartenenze funzionali all’esercizio del potere. La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano di dire no alla guerra.

Nessuno ci ha condannato a farci a pezzi anche se ci assicurano che questo avviene per il nostro futuro.

Perché nella guerra non ci sono più, se mai ci sono stati, vincitori e vinti. Perché la violenza segna chi la subisce e chi la fa». E ripropone l’idea dello Stato unico democratico e binazionale, nel quale ebrei e palestinesi abbiano gli stessi diritti e possano convivere.

Era una prospettiva presente anche in alcuni intellettuali ebrei tra cui Hanna Arendt e Martin Buber oltre che in una parte del sionismo laico e democratico delle origini, che cercava una patria per gli ebrei (non degli ebrei), un rifugio contro le persecuzioni, i pogrom dei paesi dell’est europeo e anche della “civilissima” Francia dell’affare Dreyfus. «Una terra senza un popolo, per un popolo senza terra», invocava lo slogan sionista.

Comprensibile nel secolo delle nazioni e ancor più dopo la Shoah.

Ma la Palestina non era una terra senza un popolo e, come Gandhi aveva previsto in una lettera ad amici ebrei scritta nel 1938, il progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina sarebbe stato problematico, anche se lì erano da secoli presenti comunità ebraiche che convivevano tranquillamente con quelle arabe, come ricorda ancora Rashid.

PALESTINA E ISRAELE: CHE FARE?

di Noam Chomsky (Autore) Ilan Pappé (Autore) F. Barat (Curatore)

Come scrive Pappe, c’è bisogno di “un nuovo discorso che analizzi la realtà invece di ignorarla”, perciò “se si vuole superare la paralisi concettuale impostaci dalla soluzione a due Stati, chiunque sia nelle condizioni di farlo – a qualsiasi livello – dovrebbe proporre una struttura politica, ideologica, costituzionale e socioeconomica che valga per tutti gli abitanti della Palestina, non solo dello Stato di Israele”.

Ha ancora senso oggi parlare di Palestina e Israele usando espressioni come “processo di pace”, “soluzione a due Stati”, “partizione”?

Ha senso continuare con un vuoto dibattito politico, facendo il gioco dei sionisti e mantenendo lo status quo?

Le tesi di Noam Chomsky e Ilan Pappé raccolte in questo volume ruotano attorno all’idea che i tempi siano maturi per un cambio di rotta. Indugiare sulla questione israelo-palestinese significa condannare all’oblio un’intera popolazione, perciò, secondo i due autori, bisogna denunciare la natura di paese colonizzatore di Israele, spingere la comunità internazionale a prendere una posizione ferma contro le sue politiche d’occupazione e, soprattutto, ragionare in funzione di un unico Stato multietnico, dove palestinesi e israeliani possano convivere nel rispetto reciproco dei diritti umani.

Si tratta di un nuovo approccio, i cui cardini scaturiscono innanzitutto dalla necessità di superare l’ipocrisia del lessico israeliano; non più “processo di pace”, dunque, ma “decolonizzazione” e “cambio di regime”.

https://www.ibs.it/palestina-israele-che-fare-libro-noam-chomsky-ilan-pappe/e/9788876258008

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