Quaderni di Carta quattordici giugno

Numero 1 / Luglio 1999

Carlo Fusaro Ha 48 anni, è stato deputato e poi consigliere dell’allora presidente del consiglio C. A. Ciampi. Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso la Facoltà di Scienze politiche C. Alfieri di Firenze. Ultimo libro pubblicato: Alle radici del semi-presidenzialismo, 1998.

«A me è stato chiesto di dire qualche cosa a partire dal caso israeliano, già evocato da diversi di coloro che sono intervenuti, ed io partirò da lì per poi arrivare alle vicende italiane. In effetti il caso israeliano, pure in un contesto che, come tutti sappiamo, è profondamente diverso, è — secondo la mia opinione — di notevole interesse, perché i problemi del sistema politico, causati da fratture probabilmente più profonde e certo diverse rispetto a quelle che si sono manifestate in Italia sin dagli anni ’70 e ’80, presentano notevole somiglianza.

In effetti, chi leggesse la letteratura da parte israeliana, vedrebbe ricorrere non solo concetti ma addirittura espressioni che noi abbiamo continuamente scritto e usato nel nostro paese, soprattutto con riferimento alla frammentazione dei partiti, alla difficoltà di mantenere stabili le coalizioni multipartitiche, al continuo mercanteggiamento delle forze politiche minori, portato in Israele alle estreme conseguenze negli anni ’80, quando i piccoli partiti — in particolare religiosi – vendevano il loro consenso ai governi in maniera esplicita, in cambio di risorse calcolate in miliardi per questo o quell’investimento utile a loro e al loro elettorato.

Tutto questo finì col provocare una forte pressione per la riforma del sistema politico istituzionale cui non fu più possibile resistere alla fine degli anni ’80. In Israele però successe un qualche cosa di contrapposto rispetto a quello che è successo in Italia.

Noi, nell’incapacità di adeguare le istituzioni, siamo ricorsi — alla fine degli anni ’80 — al by-pass referendario (di cui per fortuna disponevamo) ed alla conseguente riforma della legge elettorale.

[1…]

Sulla base di questi dati e della letteratura consultata, che conclusioni mi sento di suggerirvi?

La prima, ovvia, è che in queste cose tutto si tiene: è difficile ottenere risultati efficaci solo attraverso la modifica della legislazione elettorale — e noi lo sappiamo — o solo attraverso la modifica della forma di governo, soprattutto quando queste singole riforme non si possono introdurre che in forma attenuata e in qualche modo contraddittoria (la contraddizione in Israele, è assai forte: un sistema maggioritario per l’elezione del primo ministro e un sistema proporzionale per la composizione della Knesset).

La seconda è che in Israele hanno ottenuta stabilità effettiva di governo ma soltanto in piccola parte la governabilità intesa come efficienza, omogeneità e continuità nell’azione di governo. La stabilità è stata funzionale soprattutto alla gestione della politica estera (ovvero dei rapporti con il mondo arabo e i palestinesi in particolare): il che, comunque, non è cosa trascurabile.

La terza considerazione è che l’elezione diretta bipolarizza ma, se non è accompagnata da altre innovazioni relative alla formazione della camera rappresentativa — mi unisco alle considerazioni di Fabbrini – bipolarizza solo se stessa e, anzi, porta di fatto ad una maggiore frammentazione. Infatti i cittadini di Israele, disponendo di due schede (anche noi abbiamo un qualche cosa di simile sia pure su stessa scheda a livello di sindaco), hanno utilizzato in misura assai accentuata il cosiddetto “voto diviso”: il 45% degli elettori israeliani ha votato alle ultime elezioni un partito diverso da quello del candidato primo ministro preferito.

Mi pare che si possa concludere che o l’elezione diretta del primo ministro si accompagna ad una separazione dei poteri tendenzialmente rigida (con le conseguenze negative che ciò può comportare) o non può non collegarsi in qualche modo alla formazione della camera politica.

L’altra considerazione è che abbiamo visto come l’utilizzo delle primarie in funzione di sostegno, di rafforzamento di un rinnovamento e di una trasformazione del sistema politico si sia realizzato con chiarezza negli Stati Uniti (soprattutto a partire dal 1968) e come in Israele, con molte esitazioni e prudenze e ripensamenti, siano stati fatti tentativi in quella direzione.

In sostanza, le primarie piacciano poco ai partiti di tipo europeo e continentale; questo naturalmente non sorprende, perché le primarie nascono proprio allo scopo di ridimensionare drasticamente il controllo sulla selezione delle candidature da parte dei gruppi dirigenti. Non a caso questi ultimi hanno sempre detestato gli outsider di qualsiasi tipo.

Un’ulteriore considerazione mi pare interessante: le primarie in Israele si sono fatte con un certo successo soprattutto dopo una sconfitta. Mi spiego: le primarie sono state l’occasione, questo è il punto, per il rilancio di partiti battuti; in altri termini, hanno cercato di assolvere una funzione effettivamente diversa rispetto al processo di selezione delle candidature negli Stati Uniti.

Sono valse, per i partiti sconfitti, per rilanciarsi, per riproporsi, trovando un nuovo leader legittimato da un processo di selezione in grado di mostrare capacità comunicative e personali particolari, in modo da lanciare per tempo il tentativo di rivincita.

Sia Netanyhau a suo tempo, sia Barak di recente non sono stati scelti in vista di elezioni imminenti. Barak, per esempio, è stato scelto nel 1997, cioè un anno dopo le elezioni del 1996, dunque con notevole anticipo. Ed il partito del Likud -con una battaglia interna che non vale la pena descrivere e che mi è stata riferita – sta adesso discutendo quando deve fare la primaria in vista delle prossime elezione (che avverranno tra tre, quattro, cinque anni).

Cosa significherebbero per noi le primarie? Questa è una riflessione che non possiamo evitare di compiere. idea -che io condivido, con le cautele che cercherò di esporre -delle primarie come strumento di costruzione del partito federativo e della leadership democratica, potrebbe avere difficoltà a imporsi in concreto da noi anche al di là della buona o cattiva volontà degli interlocutori, proprio perché questa coalizione (il centrosinistra) bene o male un presidente del consiglio in carica l’ha già.

E allora faremo la primaria con il presidente del consiglio in carica candidato alla candidatura? O la faremo senza il presidente del consiglio in carica candidato? In entrambi i casi potrebbero esserci difficoltà da superare: nel primo caso, le resistenze degli altri potenziali candidati alla candidatura, ovviamente svantaggiati; nel secondo, l’indisponibilità, ben giustificata, del presidente D’Alema a favorire una procedura che lo taglierebbe fuori.

È un problema molto serio, concreto, pratico che segnalo alla vostra attenzione, aggravato da alcune caratteristiche contestuali del sistema politico italiano delle quali vado subito a parlare.

Condivido totalmente l’analisi avanzata da diversi di voi e che credo ci accomuni in tanti, e cioè che la chiave di volta del caso italiano vada cercata nella figura del presidente del consiglio.

C’è in questo paese tutta una tradizione di evoluzione riformista delle istituzioni che ha puntato su quello, che non è riuscita ad andare abbastanza avanti a causa delle resistenze forti che ha suscitato (il che ha contribuito a provocare la crisi del nostro sistema politico istituzionale).

Questa tradizione ha una sua logica; sotto questo aspetto, l’elezione diretta del capo dello Stato rappresenterebbe, invece, l’esaltazione di opposte tendenze dualiste, statutarie — secondo me — purtroppo presenti nella Costituzione italiana e che non sarebbe affatto, invece, opportuno coltivare. Ciò detto, questo rafforzamento della figura del presidente del consiglio, come pensiamo di perseguirlo?

Mi sono fatto la convinzione fermissima che la chiave di volta sia, prima di tutto, nel potere di scioglimento. Credo che, al di là di qualsiasi altro strumento, se noi riuscissimo a realizzare una convenzione costituzionale – mi basta una convenzione costituzionale, anzi mi basterebbe una prassi intanto – in base alla quale il presidente del consiglio in carica è il vero titolare del potere di scioglimento e non il presidente della Repubblica, per quanto garante ed arbitro voglia, possa, sappia e riesca ad essere, faremmo un passo in avanti decisivo, perché metteremmo il capo del governo nella condizione di rispondere da pari a pari al “ricatto” dei partiti, del suo e di quello degli alleati grandi e piccini.

Questo nostro problema storico del rafforzamento della figura del presidente del consiglio si è scontrato, nella storia costituzionale del paese, da un lato con i partiti, dall’altro con la figura del capo dello Stato; questa transizione lo ha rivelato anche ai meno attenti.

Mi riferisco alle ultime esperienze – da Pertini in poi – ma soprattutto all’esperienza della presidenza Scalfaro. Il rafforzamento del presidente del consiglio lo possiamo invece conseguire o in via politica o in via politico-giuridica o in via giuridica; credo che la strada più conveniente sia proprio questa costruita intorno al potere di scioglimento.

L’elezione diretta, rispetto alla quale io sono sempre stato tendenzialmente favorevole, introduce invece, devo ammetterlo, elementi di rigidità. Ce ne sono diversi, oltre a quelli che sono già state detti. Segnalo subito quello di fondo che è rappresentato dalla distorsione della formazione della rappresentanza per conseguire quel nesso tra formazione della camera politica ed elezione del primo ministro, che è però indispensabile, se non si vuole correre il rischio del governo diviso.

Questo, almeno in prospettiva, è un problema, secondo me. Oggi noi giustamente ci poniamo prima di ogni altro il problema della leadership democratica. Ma io posso non pensare ad un futuro nel quale l’elezione diretta di un primo ministro con maggioranza bloccata, garantita, potrebbe dar luogo ad una concentrazione di potere veramente troppo formidabile.

Rispetto ad essa io credo, pur da grande appassionato della leadership democratica, che non possiamo non porci degli interrogativi seri. Anche per questo preferisco tendenzialmente l’altra strada e, comunque, suggerisco grandi cautele.

Altra considerazione: è indispensabile chiarire la questione del potere di scioglimento che, secondo me, servirebbe ad espungere dalla nostra Costituzione quei cascami dualisti che ancora la pervadono e che – come è stato detto mi pare da Petruccioli e da altri (per primo il professor Blondel) – si sono visti con forza in questi anni.

In questo quadro torno alle primarie. Ebbene, io penso che sono stati detti diversi dei possibili pro e dei possibili contro questa soluzione. Io vi ho segnalato quello concreto dei tempi e lo stato dell’attuale coalizione di centrosinistra.

Vorrei aggiungere altre osservazioni: nel nostro contesto io non credo sia possibile immaginare delle primarie che non abbiano carattere vincolante. In una situazione in cui esiste un problema di ristabilire un rapporto di fiducia con il corpo elettorale sarebbe l’ennesimo errore fare delle primarie che potrebbero finire come quelle citate dall’ambasciatore Bartholomew (con egregi candidati, da Mc Govern a Mc Carthy a Bob Kennedy – che fu assassinato – che avevano raccolto milioni voti, per poi essere soppiantati alla Convenzione democratica da un Humphrey che non si era mai presentato agli elettori).

In secondo luogo, per ragioni di trasparenza e di affidabilità dell’intero processo, non sono certo che noi possiamo fare delle primarie completamente prive di norme pubblicistiche. Penso inoltre che non possiamo, per ragioni analoghe, fare primarie chiuse, perché altrimenti perdiamo un altro punto nei confronti del corpo elettorale. D’altra parte ritengo che quello che diceva il professor Blondel sia assolutamente giusto: è estremamente arduo costruire primarie tra coalizioni frammentate e partiti profondamente e fortemente disuguali. Sotto questo aspetto, se venisse costruita la famosa seconda gamba dell’Ulivo, forse il discorso potrebbe diventare più concreto.

Certo — e concludo — la soluzione della primaria, a ben vedere, potrebbe essere una decisiva cartina di tornasole della volontà e della disponibilità effettiva dei soggetti e degli interlocutori politici della coalizione di centrosinistra a costruire qualche cosa di veramente nuovo in questo paese. Questo perché davanti a una proposta di quel tipo o ci si sta o non ci si sta; sapendo che starci significa mettersi in gioco, mettersi in discussione, mettersi a rischio.

Ed allora in questa chiave, come cartina di tornasole della volontà di costruire un sistema politico diverso, fondato su questo partito federativo di cui voi amici parlate, a me sembra che il fatto che qualcuno avanzi l’idea forza delle primarie e che lo faccia con energia possa costituire un prezioso contributo all’evoluzione del nostro sistema politico istituzionale.

Secondo me bisognerebbe anche avere il coraggio, da parte di questa o quella forza politica rilevante della coalizione, di dire: “Noi stiamo nella coalizione se ci sono le primarie, non ci stiamo se non ci sono le primarie”. Sarebbe una sfida che i veri leader, per primi, non potrebbero permettersi il lusso di non accettare. Sarebbe il modo di scoprire chi vuol costruire le basi di un sistema politico veramente nuovo e chi nella sostanza difende quello vecchio; e anche, in ultima analisi, chi ha vera stoffa di leader e chi non ce l’ha».

[…1] «Loro hanno fatto il contrario, nell’assoluta chiusura dei partiti minori rispetto a qualsiasi possibilità di riforma di una legge elettorale che – come Fabbrini diceva prima – è iperproporzionale, sia pure con un piccolo sbarramento all’1,5% (ma il riparto dei voti per i seggi avviene sul piano nazionale). Il movimento riformatore israeliano, con l’aiuto dell’opinione pubblica e di un numero non trascurabile di opinion leader politici illuminati, è riuscito, nel 1992 ad introdurre, come second best, l’elezione diretta del primo ministro. I riformatori italiani in parlamento si sono scontrati con le resistenze severe, forti e continuate di coloro che in realtà non volevano le riforme (e che cercavano di ostacolare o, almeno, di attenuare) e furono costretti a “subire” quella legislazione elettorale mista di cui poi si sono lamentate le conseguenze meno buone. Così è accaduto anche in Israele, dove il progetto iniziale di elezione diretta del primo ministro fu profondamente cambiato in parlamento, dal quale uscì a sua volta con le caratteristiche di cui poi tutti, si lamentano: l’elezione diretta del primo ministro. L’elezione del premier doveva portare nelle intenzioni iniziali ad un sistema con caratteristiche molto vicine ad una forma di governo presidenziale, fondata sulla separazione di poteri che reciprocamente si controllano; in realtà, è stata affiancata all’obbligo (stabilito dalla Legge Fondamentale del 1992) per il governo israeliano formato dal primo ministro eletto dal popolo, di essere da questi presentato entro 45 giorni alla Knesset per ottenere la fiducia, secondo il modello parlamentare fondato sul coordinamento dei poteri. Inoltre, se nel progetto iniziale era previsto che quel primo ministro avrebbe potuto essere sfiduciato solo con una maggioranza particolarmente qualificata, quasi una sorta di empeachment— 70 membri della Knesset su 120 — la riforma ha poi previsto che possa essere sfiduciato con la maggioranza ordinaria (non semplice ma quella della metà più uno dei componenti della Knesset). Per di più sono stati introdotti diversi casi (ben otto secondo Ottolenghi) nei quali è giuridicamente ammesso procedere alla rielezione del primo ministro, senza scioglimento della Knesset. A tutto questo si è aggiunto il mantenimento della legge elettorale proporzionale della quale si è già detto. Il risultato quale è? Sintetizzando molto: se ci si attendeva una riduzione del potere dei partiti minori, un rafforzamento reale del primo ministro nei confronti dei partiti, una trasparenza dei processi politici; se ci si attendeva un succedaneo efficace della riforma elettorale che non si riusciva a fare, ebbene sotto gli occhi di tutti vi sono dei risultati certamente deludenti. Questa delusione probabilmente è stata accentuata da alcuni aspetti della figura di Benjamin Netanyhau, primo premier eletto; per questo, forse, ci vorrebbe un minimo di cautela. Resta il fatto che i tre maggiori partiti nel 1992, prima della riforma, avevano 76 seggi alla Knesset su 120 (raccoglievano oltre il 63% dei membri); nel 1996, prima applicazione della riforma, ne ebbero – a seconda di come si fa il calcolo – 66 (pari al 55%) o addirittura solo 56 (poco oltre il 46%); nel 1999 i seggi dei tre maggiori partiti si sono ridotti ad un numero fra 42 e 45, cioè solo un terzo della Knesset! I gruppi parlamentari, che erano 10 nel 1992, sono diventati 13 nel 1996 e sono 15 nella Knesset eletta alcune settimane fa. Come vedete, le riforme sono andate nella direzione opposta alla nostra, ma il risultato assomiglia molto al nostro. La formazione del governo Netanyhau non fu facile; le difficoltà nella formazione del governo Barak sono sotto gli occhi di tutti. Anche qui non mi soffermo sui dettagli. La più recente informazione di cui dispongo è che (come altre che vi sto riferendo, devo a una mia collaboratrice che sta studiando all’Università ebraica di Gerusalemme, la dottoressa Silvia Pasquetti) il premier Barak sta cercando di comporre una coalizione con otto partiti e, tranne il partito dell’unità nazionale — quello di Benny Begin, estrema destra reazionaria si usa definirla -, Barak sta trattando con tutte le altre forze politiche della Knesset (in realtà, pare, con l’intenzione comunque, di non includere il Likud); e comunque la coalizione che si accinge a formare probabilmente conterà 66 seggi su 120 e otto partiti (con una media di 8 deputati ciascuno). Se poi guardiamo a quello che ha dovuto subire Netanyhau durante il suo mandato, le cose non vanno in direzione diversa: quando è stato costretto a sostituire ministri, per esempio, il nome dei sostituti glielo hanno dettati i vari comitati centrali dei partiti; e non ha avuto alcuna possibilità di scegliere effettivamente i suoi ministri, sebbene la Costituzione preveda (rectius Legge Fondamentale) che una maggioranza dei membri del governo siano necessariamente anche membri della Knesset. In sostanza, la situazione adesso qual è? Al di là delle cose che vi ho già detto, ci sono ulteriori informazioni che voglio dare prima di tirare qualche provvisoria conclusione o almeno l’idea che mi sono fatto. Ebbene, innanzitutto desidero informarvi che la Knesset sciolta da poco, cioè la quattordicesima — quella testé rinnovata — aveva già approvato il 21 dicembre 1998 l’abolizione dell’elezione diretta del primo ministro; essa non ha fatto in tempo, per via dello scioglimento, a votarla tre volte come le norme di rango costituzionale prevedono; e così la riforma della riforma non è entrata in vigore; tuttavia quegli stessi che l’avevano proposta l’hanno regolarmente riproposta in questa nuova quindicesima Knesset e chiedono che venga esaminata con procedimento accelerato. In secondo luogo a me sembra significativo e interessante sottolineare che in tutti i maggiori partiti sono oggi una minoranza i sostenitori dell’elezione diretta del primo ministro. Eppure fra costoro ci sono proprio coloro che sono stati primo ministro (direttamente elettivo o no). Favorevole fu a suo tempo il povero Rabin (che non era stato eletto direttamente); lo è stato Netanyhau prima, durante e dopo la sua esperienza; lo è Barak. Barak è uno dei cinque laburisti (su 34)che ha votato nel 1998 contro l’abolizione dell’elezione diretta del primo ministro. Egli ora propone alcuni correttivi minori, volti a rafforzare il governo: per esem esempio l’istituzione dell’incompatibilità fra mandato parlamentare e governativo (secondo il modello francese della Quinta Repubblica). Di pari passo con queste innovazioni istituzionali e con le mancate innovazioni elettorali, ad Israele i due maggiori partiti hanno sperimentato le primarie. Si è trattato di primarie “chiuse”, cioè limitate ai membri del partito. Inoltre i laburisti sono l’unica forza politica che le ha mantenute sia per l’individuazione del candidato a primo ministro sia per l’individuazione dei candidati alla Knesset. Il Likud aveva previsto la stessa cosa, ma dopo averla sperimentata ha abbandonato le primarie per la nomination dei candidati alla Knesset, mantenendola (ma la cosa è poco significativa, perché la conferma di Netanyhau , che infatti è stato confermato con 1’82% dei voti, era piuttosto probabile) per la sola candidatura alla carica di premier. Gli altri partiti non conoscono nulla di simile (anche se ricorrono in genere a consultazioni e voti dei quadri del partito e non del solo gruppo dirigente). La legge elettorale per l’elezione del primo ministro ha indubbiamente avuto un effetto bipolarizzante ma solo su quello specifico tipo di elezione: si è visto che i vari candidati (Netanyihau e Barak a parte), si sono tutti ritirati prima del voto per permettere un confronto a due».

Seminario di Carta 14 giugno

“Noi pensiamo che il nuovo Ulivo debba nascere da una autentica spinta costituente, attraverso convenzioni politiche e programmatiche, usando quello che dovrebbe diventare uno strumento normale: il metodo delle primarie”.

Quaderni di Carta quattordici giugno – Periodico dell’Associazione per la costituente dell’Ulivo

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Roma questo numero è stato chiuso in tipografia il 26 luglio 1999

numero I in attesa di autorizzazione

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