“È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio” (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25).

Si tratta di semplicemente di un’iperbole, come siamo abituati a pensare, oppure di un errore di traduzione dovuto a un caso di polisemia?

Secondo i sostenitori della teoria della “priorità aramaica”, il Nuovo Testamento e/o le sue fonti furono originariamente scritti in aramaico, invece che nel greco koiné con il quale ci è pervenuto. Nell’ambito di questa teoria si è ipotizzato che alcune parole polisemiche aramaiche abbiano generato errori di traduzione.

La parola aramaica גמלא gamal può significare, infatti, sia “cammello” sia “ grossa corda”. Il presunto traduttore greco avrebbe quindi semplicemente scelto il senso sbagliato del termine, trasformando l’iperbole moderata di una grossa corda che si tenta invano di infilare nella cruna di un ago nell’iperbole estrema del cammello. (Silvia Pareschi, lunedì 14 novembre 2011)

Il significato comunque è incontrovertibile: per godere del regno dei cieli bisogna essere poveri, poiché la ricchezza, intesa come fine a se stessa e scopo ultimo della vita, conduce alla perdizione.

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Un’altra ipotesi è che errore di traduzione risalga ai tempi di San Gerolamo, che tradusse in latino parte dell’Antico Testamento greco e successivamente l’intera Bibbia, dando vita alla Vulgata. Egli, distrattamente, potrebbe aver trascritto “kamelos” al posto del molto simile “kamilos“, che però ha un significato differente, indicando una grossa fune o una gomena di nave.

Un’altra possibilità è che si tratti di un caso di iotacismo, cioè di un errore di scrittura, frequente nei manoscritti greci, dovuto alla confusione dei grafemi “i” “ē“, “ei”, “oi” e “y”, che nel greco tardo e bizantino avevano tutti assunto la medesima pronuncia i della lettera iota.

In tutti e tre i casi la versione corretta sarebbe “E’ più facile che una grossa fune passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio“. (06/02/2017 DI SCIENCE INSIDER).

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E la cruna divenne ampia

Credono di possedere mentre sono posseduti, non padroni del denaro ma venduti ad esso. Cipriano, De lapsis

Il capitalismo sta facendo col cristianesimo qualcosa di analogo a quanto il cristianesimo aveva fatto con l’impero romano, quando, a partire dal IV secolo, si sostituì alla sua cultura e alla sua religione, nutrendosi di esse.

Se quindi, seguendo volentieri Walter Benjamin, diciamo che il capitalismo è cresciuto come «parassita» del cristianesimo, dovremo dire che molti secoli prima era stato il cristianesimo a crescere, nel senso che vedremo, come parassita del mondo romano, deponendo il suo uovo in un altro nido.

Partiamo da una domanda: che cosa della visione economica dei Vangeli e del Nuovo Testamento è entrato nella christianitas medioevale e quindi nell’ethos dell’Occidente?

L’etica economica nel Nuovo Testamento non è semplice. Perché non è mai stato facile mettere assieme la parabola dei talenti con quella dell’operaio dell’ultima ora, l’etica del «buon samaritano» con quella dell’«amministratore disonesto» – dove, unica volta nei Vangeli, compare la parola oikonomia.

Gesù chiamava i poveri «felici», ma lui stesso non era “tecnicamente” un povero, e non escludeva i ricchi dai suoi (Matteo, Zaccheo, Giuseppe d’Arimatea…). Alcune parole su beni e ricchezze occuparono da subito un posto speciale. La prima è il racconto dell’«uomo ricco» (noto come «giovane ricco»), dove Gesù per rispondere alla sua richiesta di «ottenere la vita eterna» gli indica la «sola cosa» ancora mancante: «Vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi». E poi, di fronte al suo rifiuto, formula una delle sue frasi “economiche” più celebri – quella sul ricco, il cammello e la cruna dell’ago (Marco 10, 18-22).

Una visione critica della ricchezza, che si ricollega alla grande tradizione profetica biblica (Amos, Isaia), a Giobbe e Qoelet. Al tempo stesso, dobbiamo tener presente che la critica della ricchezza contrasta con l’altra anima ben presente nella Bibbia, quella che legge i beni come benedizione di Dio e come segno di giustizia delle persone (ad esempio Abramo e i patriarchi).

L’altro grande luogo “economico” del Nuovo Testamento è il capitolo quarto degli Atti degli apostoli dove si descrive la comunione dei beni dei cristiani di Gerusalemme: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (4, 32). Qui, con la comunione, troviamo la distinzione tra uso e proprietà dei beni, che secoli dopo diventerà centrale con il movimento francescano.

Si deve notare però una differenza importante tra la visione della povertà/ricchezza che emerge dall’episodio del giovane ricco del Vangelo e quella presentata negli Atti. Lì, il convertito alla buona novella donava i suoi beni ai poveri ed entrava nella comunità cristiana come povero (per scelta). Nella comunità di Gerusalemme, invece, «nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (4,34-35). Qui i beni non vengono donati ai poveri, l’enfasi è posta sulla redistribuzione interna alla comunità.

Più che la povertà in sé, è la comunione intra-comunitaria a essere posta a cuore della Chiesa, perché l’ideale era: “nessun bisognoso” tra i fedeli. Infine, le lettere di Paolo. Qui uno spazio importante è attribuito alla “colletta” per aiutare «i santi» (bellissima espressione) della Chiesa di Gerusalemme. Il suo pensiero è centrato sul concetto di uguaglianza: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza… e vi sia uguaglianza» (2 Corinti 8, 13-14). Siamo nella stessa linea degli Atti: il centro non è la povertà ma la comunione dei beni. Quindi, nel Nuovo Testamento, se si eccettua la (fondamentale) pagina delle Beatitudini, a interessare è l’atteggiamento nei confronti della ricchezza, non tanto la povertà.

Se poi guardiamo anche la letteratura dei Padri della Chiesa, ritroviamo spesso questo duplice insegnamento nei confronti della ricchezza: liberarsi dai beni è pre-condizione personale per iniziare una vita nuova dove i veri beni sono altri (occorre sgomberare i granai per accogliere il grano nuovo), ma la stessa ricchezza è anche necessaria per poter ridurre la povertà nella comunità. Scriveva Clemente Alessandrino: «Il Signore approva l’uso delle ricchezze, tanto da comandare la comunione dei beni» (Quis dives salvetur).

Con la fine della stagione primitiva e carismatica della Chiesa, poi, la diffusione del cristianesimo determinò naturalmente l’arrivo crescente di persone benestanti nelle comunità.

Significativo fu un episodio avvenuto a Roma tra il 404 e il 405 (Vita Melaniae). Due giovani sposi cristiani, Valerio Piniano e Melania la Giovane, avevano un grande patrimonio. Attratti da una vita ascetica, iniziarono a disfarsi della loro enorme ricchezza per vivere una vita in povertà, in Sicilia, poi a Gerusalemme, per imitare la vita povera dei primi cristiani. Gli sposi affrancarono 8.000 schiavi, e svendettero le proprietà. Gli schiavi però protestarono e si rivoltarono per questa scelta perché si ritrovarono senza alcuna protezione, e molte delle terre finirono abbandonate. Un episodio, questo, che contribuì al dibattito su povertà e ricchezza, che coinvolse molti teologi tra il IV e V secolo. Siamo dopo l’Editto di Milano, e il cristianesimo stava via via prendendo nelle masse il posto della religione romana. Occorreva qualcosa di nuovo. Fu Agostino a offrirlo.

Tornato in Africa, Agostino era molto interessato all’unità del popolo cristiano, e quindi fu costretto a una «certa reticenza nei suoi rapporti con i ricchi» (Peter Brown), certamente maggiore di quella di Paolino da Nola, Gerolamo o Ambrogio.

Con Agostino si accentuò la lettura morale delle parabole e degli episodi “economici” di Gesù, già presente nei primi Padri, e le ricchezze di cui disfarsi diventano le passioni cattive. La ricchezza in sé è buona, ma è soggetta come tutti i beni alla corruzione.

Ad Agostino interessavano soprattutto la concordia, la filantropia, le elemosine, l’ordine e l’amor civicus romano. E così riprese quasi in toto l’etica economica romana classica, inclusa l’idea che i ricchi erano necessari per la gestione del potere e del buon governo.

A complicare il tutto ci fu anche il ruolo di Pelagio, un “eretico” contro cui Agostino ingaggiò una durissima battaglia teologica. Anche se il centro di quella grande polemica era il tema della grazia e della salvezza, Pelagio e i suoi seguaci svilupparono, anche per un’influenza della filosofia stoica, una visione negativa radicale nei confronti della ricchezza, che attecchì particolarmente nelle élite romane. Conseguenza della teologia pelagiana della salvezza legata alle opere, i ricchi per salvarsi dovevano rinunciare a tutti i loro averi (come Piniano e Melania), e quindi cercare di passare nella cruna dell’ago: «Un ricco che rimanga in possesso delle sue ricchezze non può entrare nel Regno» (De divitiis). È la rinuncia volontaria alla ricchezza l’opera che ci salva. E poi aggiunge, chiaramente in polemica con Agostino: «E non gli può giovare a nulla, nell’assicuragli la salvezza, usare le sue ricchezze per elemosina». I pelagiani tentarono anche una analisi della morfologia e dell’origine della ricchezza, arrivando a conclusioni molto forti: «Difficilmente la ricchezza può essere acquistata senza qualche ingiustizia» (De divitiis).

La battaglia teologica fu vinta da Agostino, e insieme alla teologia di Pelagio fu sconfitta anche la sua visione della ricchezza: «Se i ricchi saranno virtuosi, stiano pur tranquilli: quando arriverà l’ultimo giorno si troveranno sull’Arca» (Agostino, Sermo Dolbeau).

E così, il posto del motto pelagiano – «Togli i ricchi e non ci saranno neanche i poveri» – fu preso da quello agostiniano: «Togli la superbia, e la ricchezza non ti recherà nocumento» (Disc. sul VT, sermo 39,4).

Il cammello riuscì a passare perché fu allargata di molto la cruna dell’ago. La vittoria di Agostino orientò decisamente la morale economica dell’Europa e quindi la storia dell’Occidente.

A questo punto dobbiamo tornare al “parassitismo” da cui siamo partiti. Ciò che noi chiamiamo visione cristiana della ricchezza e della povertà fu in grande parte una eredità che il cristianesimo raccolse dal mondo romano. Sull’uso delle ricchezze il cristianesimo medioevale lasciò le forme della civiltà romana (quasi) immutate.

La mancanza nei Vangeli di una vera e propria dottrina popolare sulla ricchezza (quella che c’era fu considerata troppo esigente per diventare universale) fece sì che i teologi e i padri adottassero l’etica civica romana preesistente che ben si prestava a diventare etica possibile per tutti, ricchi e poveri. Mentre su altre dimensioni della vita e della religione il cristianesimo portò in Europa una grande novità, l’etica economica cristiana nacque da un innesto sull’albero romano (e greco) e sulla sua etica privata e pubblica.

Furono di certo più influenti Cicerone e Seneca del “giovane ricco” e della “comunione dei beni”. L’assistenza ai poveri, l’annona, le donazioni e la magnanimità dei ricchi, su cui si costruì la cultura della ricchezza e della povertà nel Medioevo, erano di fatto già presenti e operanti nel tardo impero romano; i cristiani li ripresero cambiandoli solo al margine e non su aspetti decisivi (per esempio, la ricompensa per la beneficienza non era più la statua nel foro ma il paradiso). Per poter diventare possibile per tutti l’etica economica cristiana fu costretta a pagare il prezzo di diventare molto romana, a «crescere parassitariamente» sull’etica dell’impero che si stava dissolvendo.

C’è, infine, un altro aspetto rilevante, su cui torneremo. Parallelamente all’affermazione di un’etica della ricchezza possibile, conciliante e moderata, in quegli stessi secoli iniziava il grande movimento del monachesimo.

Incominciò in quel tempo a prendere piede l’idea che la radicalità richiesta dai Vangeli e dagli Atti in tema di rinuncia alle ricchezze e di comunione dei beni potesse finalmente diventare prassi concreta per i monaci e per i monasteri.

Ai laici si propose un’etica possibile per tutti; nei monasteri, invece, si potevano rivedere le comunità carismatiche dei primi tempi, quell’antica comunione dei poveri, quella “sola cosa” mancante. E ogni volta che, grazie a un carisma, si vuole tornare alla radicalità dei primi tempi del cristianesimo, si ripercorrono queste stesse dinamiche, e riappare la “soluzione” del doppio binario.

Non capiamo l’economia occidentale medievale, la Riforma e poi l’economia capitalistica moderna senza questo “doppio binario” seguito dall’etica economica, che se da una parte diede vita all’immenso movimento del monachesimo e ai suoi enormi frutti di civiltà (e di economia), dall’altra ha fatto sì che l’etica economica – pubblica e privata – dell’Europa cristiana fosse molto, troppo simile a quella precedente il cristianesimo.

Quanto c’è allora di etica romana e quanto di quella cristiana nello spirito moderno del capitalismo? Quale Europa sarebbe nata se ad affermarsi non fosse stata l’etica romana ma quella della comunione dei beni? Come sarebbe diventata l’economia occidentale se il cammello non fosse passato per quella ampia cruna?

Luigino Bruni

sabato 25 gennaio 2020

l.bruni@lumsa.it

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L’economia del settimo tempo

In questo settimo tempo che è ormai vicino, cesseranno l’apertura dei sigilli e la fatica di esporre i libri dell’Antico Testamento e sarà veramente concesso il riposo sabbatico al popolo di Dio. In quei giorni inoltre ci sarà giustizia e abbondanza di pace

Gioacchino da Fiore, I sette sigilli

Anche il movimento francescano ha il suo posto nella nascita dell’economia di mercato. Non sono pochi gli storici e gli economisti che indicano il poverello di Assisi come precursore dell’economia di mercato, persino del capitalismo. Francescana fu infatti la prima scuola di pensiero economico medioevale, e nel secondo Quattrocento i frati francescani fondarono i Monti di Pietà, istituzioni finanziarie senza scopo di lucro (sine merito), all’origine della tradizione della finanza popolare e sociale italiana ed europea. Un movimento spirituale nato dalla scelta di “madonna povertà” che diede vita a banche e trattati sulle monete ha da sempre generato sorpresa, insieme a molti equivoci. Infatti, come nel caso del monachesimo, anche il rapporto tra francescani ed economia è molto più complesso di come viene raccontato – e molto più interessante.

Francesco iniziò la sua rivoluzione, anche economica, scegliendo come sua forma di vita soltanto il Vangelo: soltanto, sta in questo avverbio limitativo la novità del francescanesimo. Noi non abbiamo più le categorie per comprendere cosa fosse la povertà di Francesco e poi di Chiara. Diversamente da quella dei monasteri, era una povertà individuale e una povertà comunitaria: non solo le persone, neanche i conventi dovevano possedere alcun bene. Come amava dire Ugo di Digne, il solo diritto che hanno i francescani è il diritto a nulla possedere, a vivere sine proprio. Da subito il dibattito, anche giuridico, prese la forma della distinzione tra proprietà dei beni e loro uso. I teologi e i giuristi francescani cercarono di convincere la Chiesa che fosse possibile vivere senza possedere alcun bene, neanche i beni necessari per nutrirsi: «Come il cavallo ha l’uso di fatto ma non la proprietà dell’avena che mangia, così il religioso ha il semplice uso di fatto del pane, del vino e delle vesti» (Bonagrazia da Bergamo). Per questo usarono strategie giuridiche estreme, come l’equiparazione dei frati ai minorenni, agli incapaci, ai pazzi furiosi, o l’estendere le eccezioni dello “stato di necessità” alla loro condizione ordinaria di vita.

Mentre il Medioevo cristiano seguiva l’etica economica moderata ereditata dal tardo Impero romano, Francesco, i suoi frati e le sue suore tentarono qualcosa di impensato che ci lascia ancora oggi senza fiato: tornarono lungo le strade, raccolsero l’eredità del primo nome dei cristiani, “quelli della via”, da ricchi divennero mendicanti poveri in mezzo ai poveri. Francesco passò per la cruna non perché allargò l’orifizio dell’ago ma perché ridusse il “cammello”, fino a renderlo sottilissimo. “Beati i poveri” divenne la loro felicità desiderata e bramata: «Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace» (Paradiso, XI, 84). Solo Dante poteva racchiudere in un solo verso il paradiso di Francesco.

Il grande tentativo francescano di distinguere proprietà dei beni dal loro uso non ebbe successo. Nel 1322 papa Giovanni XXII rettificò la tesi del suo predecessore Niccolò III, e stabilì l’impossibilità del solo uso dei beni, e attribuì all’ordine la proprietà dei beni che usavano. L’utopia concreta dei francescani non entrò né nel diritto Chiesa romana né nell’eredità economico-giuridica dell’Occidente. Ma non è morta, perché continua a sfidare le nostre economie e i nostri sistemi giuridici.

La vicenda di Francesco interseca in più punti la storia teologica dell’Europa cristiana. Mentre in Assisi iniziava la sua oikonomia paradossale, nella Chiesa romana stava giungendo a una prima sintesi l’antico principio teologico dell’opus operatum (o ex opera operato). Di cosa si tratta? E perché è rilevante per il nostro discorso?

Riguarda il rapporto tra la dignità, l’onore e il merito dei sacerdoti e la validità dei loro atti e delle loro parole. Con l’inizio del secondo millennio la Chiesa decretò che non erano le condizioni soggettive degli uomini di Chiesa a determinare la validità dei loro atti, perché i meriti che davano loro efficacia non erano quelli del prete ma quelli di Cristo. Il sacramento ha una sua efficacia intrinseca (è la stessa opera a operare), che non viene inficiata dai peccati della persona che lo amministra, né aumentata dai suoi meriti – un proverbio che ripeteva mia nonna esprime cosa era entrato nel popolo di quella teologia: «Guarda quello che il prete dice, non quello che il prete fa». Un prete indegno resta prete, e le sue liturgie e i suoi sacramenti restano validi ed efficaci. Un dibattito che sarà poi reso celebre e molto rilevante da Lutero, e la teologia dell’opus operatum ribadita dal Concilio di Trento contro le critiche protestanti.

Il monachesimo delle origini e poi il francescanesimo non seguirono la strada dell’opus operatum. L’essere francescano è una forma di vita (quella del Vangelo), quindi la non conformità alla vita inficia la sostanza dell’essere frate. Un frate che non vive come Cristo non è un frate, né una suora è suora. I suoi atti e parole non sono separabili dalla sua vita. Certo, anche i frati possono essere indegni, sbagliano, peccano, sono incoerenti, ma i loro atti non sono protetti da nessuna teologia dell’opus operatum. Anche questa è altissima povertà.

È vero poi che anche la vocazione religiosa francescana (e degli altri carismi) ha una sua misteriosa oggettività che ricorda l’opus operatum (la vocazione non è una faccenda morale, ma ontologica); ma niente e nessuno garantisce ai frati l’efficacia oggettiva delle loro opere e parole. La santità della liturgia è vicaria, sostituisce quella della persona. Nessuno e niente può invece promettere che gli atti e le parole di fra Mauro sono efficaci per il fatto che si svolgono in una forma di vita, perché nessuna forma di vita è di per sé efficace ex opera operata – sta anche qui una spiegazione del perché questi movimenti, monachesimo e francescanesimo, nati laici si sono via via trasformati in comunità maschili composte quasi interamente da sacerdoti, perché l’opus operatum offre la speranza di una qualche base solida su cui fondare le proprie fragili parole e vita. La forma di vita dice se sono frate, ma non produce oggettivamente frutti francescani, e un francescano indegno non ha nella liturgia nessuna rete di protezione. I frati non sono preti, anche quando lo diventano; anche per questa ragione la vita consacrata femminile nella Chiesa cattolica è custode della forma della vocazione e della sua altissima povertà. Sta in questa paradossale forza e debolezza il mistero delle vocazioni, quella di Francesco e di tutte le altre, religiose e civili.

Ogni istituzione umana cerca, disperatamente, il suo opus operatum, perché desidera più di ogni altra cosa separare la validità oggettiva dei propri atti dalle qualità soggettive delle sue persone, perché sa che questa dipendenza la rende radicalmente vulnerabile. Tutti vorremmo ospedali efficaci indipendentemente dalle qualità di medici e infermieri, scuole che producano cultura ed educazione senza dipendere dall’impegno e competenza di maestri e professoresse, parlamenti che generassero leggi immuni dai vizi dei loro politici.

I carismi, però, non possono per loro natura raggiungere questo paradiso, sono drammaticamente dipendenti dalla qualità morale della loro gente. Sono mendicanti della fedeltà e dell’amore delle loro persone, da cui dipendono ogni giorno, ogni minuto. Una Messa può essere valida anche se in parrocchia non è rimasto nessun sacerdote degno, ma una comunità religiosa muore quando scompare l’ultima persona fedele alla sua forma di vita.

L’economia moderna ha trovato il suo opus operatum quando, con il capitalismo, ha separato le merci dalle intenzioni e dalle qualità morali dei suoi produttori. Lo aveva, profeticamente, intuito Marx con la sua teoria della “merce feticcio” e della “alienazione”. Fino a tutto il Medioevo i prodotti del lavoro portavano impressa la firma, anche invisibile, del loro autore. La merce non era separabile da chi l’aveva prodotta, e dall’oggetto si poteva risalire al soggetto. Nel mondo medioevale era poi essenziale la convinzione che i prodotti dell’azione umana rispecchiassero le qualità morali di chi li aveva creati, la dimensione soggettiva delle cose era inseparabile dall’oggetto.

Con il capitalismo il prezzo e il valore della merce prescindono dalle condizioni oggettive di chi la produce (e consuma). Quel valore diventa ex opera operato, non dipende dalle condizioni soggettive dell’agente. Le caratteristiche morali della persona non hanno alcun effetto sul valore dei beni, al punto che anche giuridicamente abbiamo inventato la società anonima, una finzione per separare l’impresa dalle persone che la compongono e gestiscono. Nel valore di scambio delle merci non c’è più traccia di quelle persone «nascoste sotto l’involucro delle cose» (Il Capitale).

Questa spersonalizzazione è essenziale all’umanesimo del capitalismo perché altrimenti, se avesse tenuto le merci legate al suo fattore, non sarebbe nata la produzione di massa, né la riproduzione infinita delle cose per il loro consumo.

L’opus operatum del capitalismo si è molto intensificato in questi ultimi anni. Sono sempre più le procedure e i protocolli, non le caratteristiche delle persone, a determinare la qualità dei beni. Processi anonimi e spersonalizzati (per esempio: le certificazioni), che non dipendono dalle qualità soggettive etiche delle persone, ma dalla qualità oggettiva delle procedure. Anche il management sta diventando un insieme di tecniche e di strumenti che per essere perfetti devono dipendere il meno possibile dalle dimensioni soggettive delle persone – l’antica idea della magia o (oggi) della tecnica come media di salvezza, un’onda che sta toccando anche Chiese e comunità ideali.

Ma questo stesso capitalismo sta generando il superamento del suo opus operatum, e un paradossale riavvicinamento all’economia della forma di vita. Soprattutto in certi settori (il cibo o il turismo, ad esempio) non vogliamo più le merci slegate dalle persone: siamo tornati a cercare le persone nascoste dentro le cose. Vogliamo conoscere le storie dei contadini, degli imprenditori, dei cuochi, le loro intenzioni, per capire se sono davvero genuini e autentici, come se il linguaggio dei prodotti non ci bastasse più. E anche nel management si parla di carisma dei manager, e le anonime procedure stanno lasciando il posto al talento del leader, alla personalità e al genio delle persone. Nelle grandi crisi muoiono gli oggetti e torna forte la nostalgia dello sguardo delle donne e degli uomini.

I primi francescani (Pietro Olivi), riprendendo la profezia di Gioacchino da Fiore, credevano che l’ultimo tempo, il settimo, sarebbe stato quello dell’altissima povertà di Francesco, che per loro era il profeta del tempo ultimo. Con il terzo millennio siamo entrati nell’era dei beni comuni: se continuiamo a sentirci proprietari e padroni della terra, dell’atmosfera, degli oceani, riusciremo solo a distruggerli. Dobbiamo, presto, imparare a utilizzare i beni senza esserne padroni, dobbiamo velocemente apprendere l’arte dell’uso senza proprietà. L’arte di Francesco. E se fosse l’economia del sine proprio quella dell’era dei beni comuni? Sarà quella di Francesco l’oikonomia in grado di salvare noi stessi e la terra?

Luigino Bruni

sabato 8 febbraio 2020

l.bruni@lumsa.it

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Benedire il segno di Abele

Ciò che noi sappiamo è soltanto questo: che una parte dell’umanità sarà salva e un’altra rimarrà dannata. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

Un’Europa anti-capitalista che generò lo “spirito” del capitalismo, è uno dei fenomeni più misteriosi e complessi della storia. L’economia europea a “doppio binario” (laico e religioso) aveva maturato, nei monasteri e nelle città, una visione critica della ricerca della ricchezza materiale. Sebbene per ragioni diverse, dentro e fuori i monasteri e i conventi la ricerca di profitti e guadagni non era né lodata né incoraggiata.

I religiosi e le religiose facevano voto di povertà, nelle città commerciali l’avarizia era considerata uno dei principali vizi capitali. L’Inferno di Dante abbonda di avari, sottomessi alla tremenda custodia di Pluto, divinità pagana con sembianze di lupo (canto VII). Nel Medioevo l’avarizia, cioè trasformare la ricchezza da mezzo a fine, era infatti vizio privato e pubblico, perché conduceva alla perdizione morale della singola persona e delle comunità. Come tutti i vizi capitali, dalla loro pratica non poteva venire nulla di buono – abbiamo dovuto aspettare la modernità per iniziare a pensare che dai “vizi privati” potessero derivare “pubbliche d virtù”. Come mai l’etica dell’avarizia-lupa partorì un giorno l’etica capitalistica? Torna qui la metafora del capitalismo-cuculo da cui siamo partiti cinque domeniche fa.

Il dubbio che di cristiano lo spirito del capitalismo avesse molto poco, era anche quello dello storico Amintore Fanfani, che, criticando Max Weber individuava lo spirito del capitalismo già nei mercanti italiani del Trecento e Quattrocento: «Se il cattolicesimo ha combattuto allora e sempre lo spirito capitalistico, come questo si è manifestato in età cattolica?» (Fanfani, 1934). Per Fanfani l’emergere del capitalismo fu infatti un’anomalia, un fenomeno eccezionale dovuto a circostanze altrettanto eccezionali (per esempio, lo sviluppo di una classe di mercanti internazionali), che consentirono che la ricerca e l’accumulo del denaro, condannato dall’etica medioevale, potesse un giorno diventare lecito e socialmente lodato. Per Fanfani quei mercanti italiani svilupparono uno “spirito” non diverso da quello degli imprenditori e banchieri olandesi e americani calvinisti del Settecento descritti da Weber.

In realtà, a Fanfani sfugge che il centro del racconto di Weber era proprio la dimostrazione del perché i business calvinisti fossero molto diversi dai mercanti italiani, una diversità racchiusa tutta nella parola spirito del capitalismo: «La sete di lucro, l’aspirazione a guadagnare più denaro possibile, non ha di per sé nulla in comune con il capitalismo. Quest’aspirazione si ritrova presso camerieri, medici, artisti, soldati, banditi, in tutte le epoche di tutti i paesi della terra» (Weber, 1905). Lo spirito del capitalismo per Weber è quindi qualcosa di inedito nella storia dell’umanità, in quanto figlio dell’etica protestante, in particolare calvinista (e delle varie tradizioni influenzate dal calvinismo: pietisti, puritani, battisti, metodisti, persino quaccheri).

Anche per Weber, quindi, lo spirito del capitalismo non sarebbe un parassita del cristianesimo (come dirà pochi anni dopo Walter Benjamin), ma avrebbe una natura cristiana, sebbene il “figlio” legittimo crescerà con caratteristiche impreviste e non volute dai suoi “genitori” (Lutero e Calvino e gli altri riformatori).

Dove si troverebbe, per Weber, la natura dello spirito del capitalismo?

Sono tre i principali elementi della classica narrazione di Weber. Il primo ruota attorno alla parola vocazione – in tedesco beruf. Nel mondo protestante la parola vocazione aveva assunto, molto presto, anche una esplicita connotazione lavorativa, tanto che beruf significa, a un tempo, vocazione e professione. Nel mondo cattolico, invece, vocazione continuava a essere parola essenzialmente spirituale, usata in particolare per monaci, monache e frati. Qui si trova il primo passaggio fondamentale. Lutero criticò duramente le vocazioni consacrate nella chiesa cattolica («sono state dettate dal diavolo», diceva), una critica che portò presto alla (quasi) scomparsa dal mondo protestante di monaci e frati. La cancellazione di questo secondo “binario” della vita cristiana produsse naturalmente lo spostamento della categoria di vocazione dalla vita religiosa alla vita civile. Espulsa dai monasteri, la vocazione divenne l’abito civile di tutti i cristiani riformati. Quella “forma di vita” radicale che nel cattolicesimo era e rimase appannaggio della sola vita consacrata, nel mondo protestante diventa forma di vita universale civile e laica. L’ora et labora dal monastero emigrò nelle città divenendo la regola ordinaria del cristianesimo protestante. L’intera vita divenne liturgia, e quindi abbracciò tutto il tempo di tutti i giorni. L’etica del lavoro divenne qualcosa di sacro, espressione di un officium. Non capiamo l’umanesimo protestante senza questa ascesi mondana. Monaci diversi in mezzo alle città: «L’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane, divenne il più alto contenuto che potesse avere l’etica» (Weber, 1905).

Il secondo elemento è la dottrina della predestinazione. L’idea di predestinazione ha nel cristianesimo una lunga e complicata storia, a partire, almeno, da Agostino. I salvati sono stati scelti fin dall’eternità da Dio, con criteri a noi ignoti, e quindi nessuna santità morale e nessuna opera può cambiare il nostro destino predeterminato. Una idea biblicamente incerta, ancorata alla Scrittura dal tenue appoggio della Lettera agli Efesini: «Ci ha scelti prima della creazione del mondo … predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (1,4-5). Una tesi che portava ad affermazioni estreme: «Iddio è morto solo per gli eletti» (Calvino).

Dalla predestinazione derivava poi un dato psicologico decisivo: gli eletti non possono sapere, soggettivamente, di essere tali perché non sono distinguibili dai non-eletti. Da qui la profonda solitudine dell’uomo di fronte al suo destino. Il calvinista trascorre la vita in una incertezza radicale che per Weber assume la forma dell’angoscia, che nasce dal non poter essere certo della propria salvezza.

Ed è qui che arriva il terzo elemento. Riprendendo tradizioni dell’Antico testamento, la teologia calvinista compie un’operazione ardua. In una condizione di incertezza e angoscia, la ricchezza diventa un segnale di elezione, il segnale più importante. Perché ricchezza dice (o almeno aumenta la probabilità) di essere parte del numero degli eletti. La ricchezza, anche nella Bibbia, è stata un segnale di qualcosa di diverso, più grande e invisibile, e per questo voluta e bramata. Nel capitalismo calvinista l’invisibile diventa il paradiso.

Vocazione, predestinazione e ricchezza-segnale: ecco i tre ingredienti dello “spirito” del capitalismo, diversissimo dallo spirito commerciale medioevale.

Una intera nuova classe di imprenditori iniziò così a leggere il successo economico come benedizione, a vivere la loro professione come vocazione e ascesi, e – fattore decisivo – attorno agli imprenditori cresce l’approvazione sociale di quella ricchezza-benedizione, non più vista come segno di peccato ma di elezione. La ricerca del profitto diventa eticamente accettata e lodata, da vizio virtù.

La vita, poi, vissuta come vocazione e ascesi, non è una vita di comfort né tantomeno di lusso. Tutto è impegno, puntualità, severità, non lasciar spazio e tempo per svago, festa. Solo il monaco medioevale e il capitalista odiano l’accidia come il male più grande. L’imprenditore calvinista non si gode i suoi profitti, il denaro non viene cercato per essere consumato ma per essere rinvestito e diventare altro denaro. È il valore intrinseco della ricchezza a fare quel primo spirito del capitalismo, e a segnare una importante differenza tra lo spirito protestante e quello cattolico del capitalismo, dove invece la ricchezza non vale nulla se non è ostentata e vista dagli altri. Il capitalista descritto da Weber è davvero un monaco, un “consacrato” che pratica una specie di voto laico di povertà pur in mezzo a molto denaro. E come il monaco cattolico era individualmente povero ma viveva in monasteri ricchi, il capitalista calvinista è individualmente povero e la sua ricchezza si accumula nella fabbrica – sta anche qui una improbabile analogia tra monastero e moderna industria.

Non è difficile cogliere nell’affascinante teoria weberiana alcune grandi aporie e paradossi del capitalismo, un sistema nato dall’imitazione laica della logica della vocazione dei monaci, che però non produsse il “nulla possedere”, ma la lode del profitto.

Una prima aporia. Il protestantesimo nasce, sulla scia di Agostino, da una feroce critica alla teologia pelagiana, all’idea che la salvezza fosse legata alle opere e non fosse, invece, sola gratia. Nello spirito calvinista torna, paradossalmente, una forma di pelagianesimo. La salvezza viene associata alle opere, sebbene le opere non siano il mezzo della salvezza ma soltanto il mezzo per «liberarsi dall’ansia per la salvezza» (Weber, 1905). È un pelagianesimo di secondo ordine, ma sul piano pragmatico siamo molto vicini all’etica di Pelagio. E così, dalla critica a Pelagio, nacque un capitalismo basato sull’idea che la salvezza fosse legata a opere produttrici del bene meno “celeste” nei Vangeli: mammona.

Ma c’è di più. La visione della ricchezza come segno di elezione e di benedizione porta inevitabilmente con sé l’idea gemella della povertà interpretata come segnale di condanna. Ogni teoria della buona ricchezza è anche una teoria della cattiva povertà. E se la “bontà” dei ricchi viene legittimata e consacrata da un crisma religioso, la maledizione dei poveri diventa doppia maledizione. La povertà è sempre stata, prima di una indigenza di denaro e di beni, una carenza di benedizione, uno stigma religioso, e quindi insieme una colpa e una vergogna.

Non dobbiamo mai dimenticare che la Bibbia aveva sempre visto con sospetto l’equivalenza tra ricchezza e benedizione perché sapeva molto bene che questa equivalenza ne portava con sé immediatamente un’altra tremenda e pericolosa: povertà = condanna. Ecco perché accanto alle pagine bibliche sui beni come segno di giustizia e predilezione (Abramo), la Bibbia ne ha posto molte altre che dicevano il contrario. Sono le pagine dei profeti, quelle stupende di Giobbe, tutte orientate a smontare la tesi del povero maledetto e colpevole. Sta qui il senso vero di “beati i poveri”, della cruna e del cammello, di Francesco e dei tanti che scelsero la povertà per liberare dalla maledizione chi la povertà non l’aveva scelta.

L’economia che pone la ricchezza al centro della sua strana religione, sarà sempre una economia che prima di chiamare i ricchi benedetti chiama i poveri maledetti. Il capitalismo individuando nella ricchezza una benedizione e una promessa, produce inevitabilmente una infinita schiera di scartati, di maledetti e colpevoli perché non portano sulla fronte il sigillo dell’elezione. E se il segno degli eletti fosse invece il “segno di Caino”, che continua a uccidere il fragile e povero Abele?!

Il capitalismo del XXI secolo, lo vedremo, ha spostato il segnale di benedizione dall’imprenditore al consumatore, ma continua a essere un grande meccanismo generatore di salvezza (immaginaria), e una grande ideologia per chiamare i poveri maledetti, poi dimenticarli nei nostri bassifondi, tenuti ben nascosti per convincerci di aver finalmente sconfitto la povertà.

Il capitalismo di oggi non sa più nulla di Calvino, della Bibbia e della dottrina della predestinazione. Ma continua, nell’angoscia, a cercare nella ricchezza il paradiso e la benedizione. E la povertà continua a essere maledizione, e i poveri ad essere chiamati maledetti. Quando impareremo a vedere il segno di Abele?

Luigino Bruni

sabato 15 febbraio 2020

l.bruni@lumsa.it

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