‘I nuovi movimenti come forma rituale’ a cura di Marino Livolsi

2.6 Per concludere:

Difficilmente un movimento può avere successo nel negoziare con le istituzioni se non ha trovato il modo di farsi, almeno in parte, istituzione e se ha in parte smarrito, anche per effetto del dispendio di energie e del logoramento di rapporti causato dai dibattiti interni, la sua capacità di mobilitazione della cittadinanza, ossia l’elemento vitale nella contrattazione con il sistema politico istituzionale. Non sono tuttavia marginali le strategie adottate dagli attori (pag.59) politici rispetto al movimento.

I partiti del centrosinistra hanno contribuito attivamente alla parabola discendente del movimento, prima accogliendone le istanze con iniziative tutto sommato “di facciata”, poi di fatto lasciandoli soli a se stessi nel momento in cui la loro forza di mobilitazione e stimolo dell’opinione pubblica si stava esaurendo.

L’incomunicabilità tra società civile e società politica sembra insomma rimanere una costante nella nostra democrazia e i nuovi movimenti sociali del biennio 2002-2004 rappresentano l’ennesima, forse non l’ultima, occasione persa per un incontro proficuo tra cittadinanza e istituzioni, almeno nell’area del centrosinistra.

Il rapporto tra partiti del centrosinistra e nuovi movimenti alterna fasi di critica e contrasto reciproco a tentativi di collaborazione più costruttiva. A conti fatti, tuttavia, non si arriverà mai a una reciproca definizione dei ruoli in vista di un progetto comune.

L’emergere di un’opinione pubblica di massa spinta dall’esigenza di sganciarsi da rappresentanze partitiche, alla ricerca di nuove forme di rappresentanza e di partecipazione, pone in maniera esplicita il problema dell’identità del movimento e dei suoi obiettivi a lungo termine.

La mobilitazione su tematiche precise e definite funziona soprattutto nel risvegliare il senso civile della cittadinanza, ma per sua natura il movimento è destinato a seguire un andamento carsico, magmatico, a risvegliarsi per poi assopirsi. Come collocarsi quindi in un progetto di azione mirato al lungo periodo?

Come raccogliere le istanze di rappresentanza espresse con tanto entu-siasmo e vigore dalla cittadinanza?

Se, come abbiamo visto, i movimenti non sono riusciti a trovare al loro interno una soluzione comune a questi interrogativi, dal canto loro i partiti si sono dimostrati molto più preoccupati di perdere spazio, visibilità e risorse politiche a favore dei movimenti che non di aprirsi a queste forze nuove per mettere insieme le energie e dare una voce autentica al bisogno di novità e di partecipazione che da molti anni caratterizza la vita politica e sociale del paese.

Ancora una volta, dunque, i partiti del centrosinistra hanno dimostrato di preferire la tattica alla strategia, il breve periodo al lungo periodo, il mantenimento dello status quo alla possibilità di un cambiamento che, alla lunga, li avrebbe probabilmente beneficiati, consentendo di rinnovare forme e modi della rappresentanza e della comunicazione che oggi appaiono fortemente inadeguati.

La tattica, dunque, è stata quella del più classico attendismo: attendere che i movimenti sprigionassero tutta la loro forza di mobilitazione e di creazione di opinione pubblica, che emergessero, come è inevitabile, dissidi interni inizialmente sopiti tra i loro animatori e le loro identità diverse, che fallisse il tentativo di consolidare una leadership che desse al movimento quella legittimazione mediatica di cui ogni soggetto politico ha bisogno.

Nell’attesa, (pag. 60) proseguire “come se niente fosse successo” nella gestione delle diatribe interne, nel cabotaggio politico quotidiano, nel tentativo di unificare il proprio fronte politico (vedi il tentativo della lista Uniti nell’Ulivo alle elezioni europee del 2004) senza preoccuparsi più di tanto di unificare e rappresentare i propri gruppi sociali e civili di riferimento.

Questo percorso giunge alla sua conclusione all’inizio del 2004, quando il centrosinistra arriva a definire il suo assetto in vista delle elezioni europee e amministrative. Il 10 e 11 gennaio 2004 a Roma si svolge l’iniziativa intitola-ta “Facciamoci del bene”, un incontro pubblico tra partiti, movimenti e società civile per definire le strategie in vista delle elezioni europee.

La partecipazione di tutti i leader del centrosinistra (Romano Prodi invia un messaggio) è un segno di apertura del sistema politico verso il movimento, ma la discussione finisce con l’essere dominata da due momenti di discordia.

Il primo riguarda la decisione, nonostante le richieste dei leader dei girotondi, di non ammettere il partito di Antonio Di Pietro nella lista unica che l’ala riformista del centrosinistra sta preparando per le elezioni europee.

Questa scelta mette in luce come i leader dei principali partiti dell’opposizione non siano particolarmente disponibili a garantire aperture e spazi di visibilità elettorale a soggetti esterni, ma rivela anche la debolezza politica del movimento, che anziché proporre un progetto di più ampio respiro finisce col ridursi a fare da portavoce al partito Di Pietro in una tipica querelle da “teatrino della politica”.

Il secondo è la durissima polemica a distanza che si apre tra Massimo D’Alema e il giornali-Marco Travaglio, che nella prima giornata dell’assemblea chiama in causa il leader del centrosinistra sul tema della legalità e ripropone la dicotomia onesti-disonesti, (16) suscitando una reazione sdegnata da parte dell’ex presidente Consiglio,(17) che minaccia anche di querelarlo. “Facciamoci del bene” si conclude con una promessa sia di maggiore collaborazione tra partiti e movimenti, sia di allargamento del perimetro alleanza politica, in vista della convention della lista unitaria organizzata per il 13 e 14 febbraio. Nelle settimane che seguono entrambe queste (pag.61) ipotesi vengono vanificate e la convention assume un carattere quasi interamente politico.

Sul palco salgono solo due esponenti dei girotondi, Daria Colombo (invitata a parlare all’ultimo minuto) e Marina Astrologo, che legge il documento approvato a Firenze una settimana prima da un’assemblea dei movimenti, nella quale era emersa la spaccatura sulla presentazione alle elezioni europee di alcuni esponenti dei girotondi, con il risultato di non riuscire a raggiungere una posizione comune né sull’opportunità delle candidature, né sul sostegno del movimento ai “propri” candidati.

Tramontata l’ipotesi di una lista unitaria del centrosinistra che consentisse ai girotondi di dialogare con un interlocutore unico, alcuni esponenti del movimento, come Francesco Pardi e Gianfranco Mascia, scelgono così di presentarsi alle elezioni europee nella lista Occhetto-Di Pietro, non senza disaccordi e malumori con chi sostiene, all’interno del movimento, la non opportunità di candidature politiche, ma anche con chi, più realisticamente, afferma che il contributo dei girotondi e dei loro leader sarebbe più appropriato, realistico e incisivo nelle elezioni amministrative che si tengono in contemporanea con le europee.

Ben altre forme di collaborazione e di apertura del sistema politico ai movimenti si sarebbero potute immaginare, anche solo guardando a quello che stava avvenendo nella preparazione delle campagne elettorali per le elezioni amministrative che si sarebbero tenute in contemporanea alle europee.

La scrittura di un programma comune attraverso incontri pubblici di discussione; la destinazione di una quota di candidature della lista Uniti nell’Ulivo a esponenti dei movimenti e della società civile; l’ideazione di forme di mobilitazione e di comunicazione elettorale comuni.

La partecipazione di esponenti dei movimenti alla lista Occhetto-Di Pietro sancisce così sul piano elettorale l’unione di quelle che Marco Tarchi (2003) individua come le due anime del populismo di sinistra, il movimento di Di Pietro e parte dei girotondi, accomunati da un sentimento di diffidenza, se non di disprezzo, verso la politica professionale, e da una corrispondente fiducia illimitata nelle virtù della società civile, pur non potendo certo affermare di rappresentarla per intero o in una parte significativa.

L’ennesima delusione per la mancanza di apertura della società politica alla società civile finisce con l’alimentare ulteriormente lo scontento verso la classe dirigente del centrosinistra e per spingere i movimenti verso un populismo sterile, sia sul piano politico, sia su quello della rappresentazione mediatica dei loro leader e del loro “popolo”, sempre più spesso etichettati con termini quali “rompiscatole”, “scontenti”, “arrabbiati”, “contro”.

Non devono dunque stupire i risultati piuttosto scarsi sia della lista Occhetto-Di Pietro (2,14% a livello nazionale), sia degli esponenti dei girotondi 18 (Risultano eletti europarlamentari per la “Società civile Di Pietro-Occhetto”, che ottiene il 2,14% con l’elezione di due deputati europei, Di Pietro e Occhetto. Quest’ultimo, però, decide di lasciare il seggio in favore di Giulietto Chiesa che era giunto terzo nella sezione riservata alla società civile delle “primarie on line”  realizzate sul sito www.igirotondi.it. Occhetto torna però a sedere nell’Europarlamento all’indomani delle elezioni politiche del 2006 in seguito alle quali Di Pietro entra nel Parlamento italiano e si dimette da Strasburgo. I due europarlamentari eletti Chiesa e Occhetto si iscrissero al gruppo socialista europeo. (pag. 62)

Leader (peraltro non troppo rappresentativi) del movimento si sono candidati in un’elezione nazionale con circoscrizioni vastissime (il che richiede notevoli capacità organizzative, risorse e visibilità per essere eletti), in una lista minore, senza avere trovato un consenso con la leadership del centrosinistra, e soprattutto senza avere realizzato l’unità interna al movimento che avrebbe trasformato delle candidature individuali in uno sforzo collettivo.

Ma la sconfitta elettorale indebolisce ancora di più i movimenti rispetto ai partiti del centrosinistra, assottigliando ulteriormente la possibilità di apertura da parte del sistema politico.

I movimenti non hanno, per definizione, vita eterna. L’attenzione del pubblico per i problemi che essi sollevano tende a essere ridotta, così come limitata è la visibilità che la sfera pubblica può concedere a un tema e a un gruppo che losostiene (Hilgartner e Bosk, 1988).

Quando si constata il declino di un movimento, un aspetto che si tende a trascurare è la non transitorietà di alcuni suoi aspetti. Man mano che compie il suo ciclo vitale, esso lascia tracce sia sulle persone che lo compongono, sia sull’ambiente esterno, costituendo una sorta di capitale politico e sociale che rappresenta una risorsa più duratura della visibilità e della capacità di mobilitazione hic et nunc.

Gli individui che vi-vono l’esperienza di un movimento acquisiscono competenze politiche, sociali e operative, formano reti di relazioni che non necessariamente scompaiono con l’affievolirsi della mobilitazione. Non a caso, una parte non irrilevante delle anime organizzative dei girotondi aveva alle spalle altre esperienze simili come quella del Sessantotto, e da queste vicende ha tratto conoscenze, capacità organizzative, memoria storica.

I movimenti lasciano una traccia permanente anche sul piano simbolico ed emotivo, come scrive Collins: «Il capitale simbolico basato sulle emozioni riverbera da una mobilitazione all’altra. Le dinamiche dei movimenti non sono solo transitorie, ma si reincarnano» (2001: 43).

Come i girotondi hanno in una certa misura fatto propri alcuni simboli, parole d’ordine e stati emotivi di altre nobilitazioni, così in futuro, in assenza di una soluzione politica alle domande di una parte significativa della cittadinanza, altri movimenti potranno ravvivare questo capitale emotivo-simbolico, magari con il contributo decisivo di persone che si sono impegnate nella stagione dei movimenti di cui tratta questo libro.

Esiste poi un’eredità organizzativa dei movimenti, che Della Porta individua in «partiti, imprese economiche, gruppi culturali, associazioni volontarie o insiemi variabili delle quattro forme» (1996: 176), che rappresentano stadi (pag. 63) diversi del processo di istituzionalizzazione, e che nel caso dei girotondi possiamo riscontrare soprattutto a livello locale e nella rete Internet.

Sotto tutti e tre questi aspetti l’eredità del movimento dei girotondi può estendersi ben oltre le coordinate cronologiche e politiche delineate in questo capitolo. Come ci ha insegnato Albert Hirschman, la partecipazione politica è soggetta a una dinamica di coinvolgimento variabile, sia a livello individuale sia a livello collettivo (Hirschman, 1983).

Le mobilitazioni possono esaurire la loro forza propulsiva, ma se le domande politiche alla sua base rimangono insoddisfatte (o peggio ancora inascoltate) è plausibile ipotizzare che i girotondi non siano altro che l’ennesimo capitolo di una lunga storia ancora da concludere.

Finché non si ricomporrà la frattura tra società politica e società civile, la vita pubblica italiana continuerà a essere attraversata e stimolata da stagioni di mobilitazione e di invocazione di valori pre-politici e desiderio di partecipazione civile non adeguatamente rappresentati dalle istituzioni e dai partiti. Segni evidenti di insoddisfazione e di difficoltà, ma anche di energia e vitalità in una società in profonda trasformazione. (pag.64).

16 Nel suo intervento Travaglio afferma: «Davvero secondo voi Mani Pulite non c’entra niente con quanto sta avvenendo ora nell’Ulivo a proposito della lista unitaria?» e, riferendosi ai rapporti tra politica e affari durante il governo D’Alema, parla di personaggi che «sono entrati a Chigi con le pezze al culo e ne sono usciti ricchi». (Meli M. T. (2004), “Scalfaro abbraccia la Ariosto e guida il `popolo di Mani pulite’”. Corriere della sera, 11 gennaio, p. 6).

17 Sono politicamente preoccupato e amareggiato. Mi è chiaro che l’insinuarsi di atteggiamenti di questo tipo, l’inquinamento della discussione politica all’interno della sinistra è un fatto catastrofico, perché mina la nostra coesione etica. Non puoi andare in battaglia alimentando su chi ti sta a fianco: è inevitabile che tu sia sconfitto. È la cosa peggiore che possa esistere e purtroppo nella sinistra anche nel passato si è usato questo modo di colpire chi ha opinione: il dissidente-venduto-traditore». Marsilli G., «Ora lo dico io non facciamoci del male», intervista a Massimo D’ Alema. L’Unità, 17 gennaio 2004, p. 1.

Il percorso sociale e storico dei girotondi

di Cristian Vaccari e Silvia Ladogana

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