Conte fa bene ad andare avanti, ma con circospezione

Il risultato delle elezioni regionali sarde ha avviato la ridda delle dichiarazioni (tante), dei mea culpa (pochi), dei salti sul carro del vincitore (moltissimi). Una spruzzata di retorica (il voto sardo contro i manganelli) che può essere abbuonata in ragione dell’ebbrezza dovuta alla vittoria. Il tema centrale rimane però l’estensione di quel campo che è stato costituito fondamentalmente dal Pd e M5S: largo? Giusto? Progressista?

Ha ragione Tomaso Montanari, che ieri dalle colonne del Fatto ha sottolineato (sposando queste ultime due definizioni) che l’alleanza del Movimento con il Partito Democratico ha senso solo se risponde alla domanda “per fare cosa?”.

Le alleanze a prescindere non servono a niente, sono anzi perniciose e fanno perdere, perché agli occhi degli elettori – sicuramente agli occhi di quelli del Movimento, meno adusi a turarsi il naso e tendenzialmente più ‘massimalisti’ (vivaddio!) – si stagliano come cartelli elettorali volti solo ad accumulare nuovo potere per poi piegarlo a tutela di decisioni prese prima e altrove.

In altri termini, se il Pd pensa all’alleanza con i 5S per riproporre la solita minestra riscaldata di un partito-apparato incistato nelle istituzioni e garante del vincolo esterno (Ue e Nato) da ottemperare attraverso il prestigio del presidente della Repubblica e la sua ormai pressoché diretta capacità di governo, allora Giuseppe Conte – che certo non ha bisogno di questi consigli, essendosi mostrato almeno dalla pandemia in poi di gran lunga più accorto di quanto lo volesse dipingere quella stampa che gli dava dello ‘Chance il giardiniere’ – fa bene ad andarci piano e a essere circospetto.

Il Movimento ha già pagato cara l’adesione prima al governo gialloverde e poi a quello di Mario Draghi, benché il primo fosse – lo scrivo con estrema fatica – inevitabile (sarebbe stato impensabile che la prima forza parlamentare cedesse allo sgambetto del Pd di non voler formare il governo per consegnare a quest’ultimo e alla solita ‘grande coalizione’ l’ennesimo governo di ‘unità nazionale’) e il secondo sia caduto proprio in ragione dei paletti che Conte aveva fissato e contro i quali Draghi, facendo male i conti (soprattutto con Di Maio), ha deciso un’azione di sfondamento andata male.

Ecco, se tanto mi dà tanto, allora l’idea di allearsi con il Pd senza se e senza ma è solo senza senso.

La circospezione di Conte, dicevamo, è dunque del tutto legittima, poiché egli sa che non può portare a spasso il Movimento, nonostante la sua leadership sia forte.

Non può e non vuole, anzi deve impedire con pensieri, parole (opere e omissioni) che vinca il celebre ‘tocco magico’ del Pd e dei suoi dirigenti, il cupio dissolvi di chi le elezioni non le sa vincere (e governa lo stesso).

Ecco, ritorna il “per fare che cosa?” di Montanari. Che è un buongiorno che si vede dal mattino: se gli alleati sono quei “centrini infestanti” – come li chiama il rettore di Unistrasi – che opportunisticamente infesterebbero, allora no, grazie, non c’è bisogno di andare a vedere come nel poker.

Montanari distingue due Pd. Forse è una dicotomia ottimistica, ma di certo c’è chi vorrebbe tutti dentro e chi vuole cambiare le cose.

Sul Domani del 29 febbraio, per esempio, c’è un articolo di Gianni Cuperlo intitolato “Quel profumo di Ulivo nella strategia paziente della segretaria Schlein”.

A parte che fa un po’ sorridere la foga con cui gli sponsor di Schlein (quelli convinti e anche quelli che si turano il naso su Schlein perché vinca comunque il partito-apparato Pd) parlano del caso sardo come se Todde fosse una Minerva partorita dalla mente di Elly – segno inequivocabile di ciò a cui Conte dovrà andare incontro: il costante tentativo di egemonizzare l’eventuale accordo cercando portatori di acqua con le orecchie alle varie bellurie a firma Pd.

Ma poi l’Ulivo, a cui, sia chiaro, anch’io ho creduto (spes contra spem; ma sappiamo distinguere le fasi storiche, e quella fase non solo si è conclusa da tempo, ma ha avuto anche i suoi parti teratologici e fuori tempo massimo, tipo Matteo Renzi), non ha più alcun profumo. (Francescomaria Tedesco 1 marzo 2024 ilfattoquotidiano.it) –

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/01/conte-fa-bene-ad-andarci-piano-ad-allearsi-col-pd-rischia-la-solita-minestra-riscaldata/7463519/

“Non allarghiamoci troppo; crediamoci di più. Si potrebbe riassumere così il flop dell’opposizione alle elezioni regionali abruzzesi. Partiamo dalla prima massima. È certamente vero che la politica elettorale ha una naturale dimestichezza con il compromesso, le giravolte, la furbizia e l’opportunismo.


Nel paese di Machiavelli, chi si stupisce di questo o disdegna la politica o si stupisce falsamente. Ma il segretario fiorentino insegnava anche che il «modo» è parte della sostanza.


Chi ha aderito al campo largo, i centristi di Azione e di Italia viva, lo ha reso poco credibile e con un fastidioso alone di palese opportunismo. Se opportunisti si deve essere, lo si sia nel modo conveniente.
Chiuse da poco le urne sarde dove Carlo Calenda e Matteo Renzi si sono spesi contro l’alleanza Pd e Cinque stelle, portando sul candidato Renato Soru quei voti che avrebbero reso più forte e veloce la vittoria di Alessandra Todde,


i due rivali in moderatismo hanno fatto una virata di 180 gradi e gli avversari di ieri sono diventati alleati. Il motivo della svolta non deve essere apparso nobile agli elettori.


Le alleanze, soprattutto quelle costruite con fatica e per necessità, devono preoccuparsi di pattugliare i confini. Un’alleanza vincente, come quella di destra, potrebbe permettersi alleati sfacciatamente opportunisti a conferma della sua forza magnetica. Tutti vogliono stare con chi vince.


Ma nel caso di un’alleanza che si costruisce da posizioni di oggettiva debolezza – cioè dall’opposizione – imbarcare chiunque voglia un posto sulla scialuppa è un segno di debolezza, non di forza.


LA FORZA DI UNA COALIZIONE
Italia viva e Azione hanno aderito al campo largo perché non hanno trovato alternative in Abruzzo.
Ecco allora che si sono orientati verso Elly Schlein e Giuseppe Conte. Dopo averli sbeffeggiati e aver criticato con una certa insistenza l’alleanza tra un partito massimalista (il Pd di Schlein) e un partito populista (i Cinque stelle di Conte), che credibilità può avere un’alleanza con loro?


Sarebbe forse stato preferibile che i due moderati facessero i moderati fino in fondo: se non c’è spazio per fare liste che si adattano al loro stile, meglio stare fuori e, semmai, dare indicazioni di voto. Ma salire sullo stesso palco calcato dai criticatissimi massimalisti e populisti non è una mossa strategica degna di Machiavelli.


La forza di una coalizione che parte in svantaggio sta anche nel sapere stabilire una soglia minima di coerenza. Perché anche se la politica elettorale è un ricamo di compromessi ed equilibrismi, un ricamo è (dovrebbe essere).


Un’opera di buon artigianato. Un senso di coerenza estetica, cioè di minima compattezza, bisogna volerlo. Altrimenti la coalizione sembra tutt’altra cosa, una boa a cui si attaccano quelli in panne e che tira giù tutti.” (Nadia Urbinati 1 marzo 2024 editorialedomani.it)

https://www.editorialedomani.it/politica/italia/la-via-del-campo-largo-e-giusta-ma-quanto-largo-deve-essere-y4a27rr4

La questione è annosa, gia Nino Andreatta nel Luglio del 1999 spiegava il concetto con altre parole: ”La Repubblica dei partiti non esiste piu’ e i partiti non devono essere piu’ principi come una volta. Ci vuole una forte legittimazione del candidato della coalizione che deve passare attraverso primarie o comunque una assemblea che associ gli elettori alla scelta. Basta con le decisioni prese nelle fumose stanze dei partiti”.

Come insegna benissimo la storica vicenda del 1999 (si veda Baldini, Corbetta e Vassallo 1999, La sconfitta inattesa, Il Mulino) la trasmissione della carica per via dinastica non può più avvenire nemmeno nella città delle Due Torri. Gli elettori sono meno identificati con i partiti, più volatili nelle loro scelte che spesso avvengono nelle ultime ore, inclini a considerare fattori connessi alla gestione della città, e meno propensi verso un voto ideologico pre-espresso a prescindere dal contesto”.

Insomma, rimarca Tana de Zulueta, l’Ulivo deve essere ”quanto di piu’ lontano da un cartello elettorale opportunistico di partiti”.

Quaderni di Carta quattordici giugno Numero 1 Luglio 1999
Quaderni di Carta quattordici giugno Numero 1 Luglio 1999

Il voto per le Europee del 2024 ha visto una Caporetto del partito della guerra, incarnato dall’asse franco-tedesco, dalla quale si è invece salvato il governo italiano e in particolare la presidente del Consiglio Meloni. Abilissima negli ultimi giorni che hanno preceduto il voto, con dichiarazioni molto prudenti, a prendere le distanze dal tragico duo Macron-Scholz, facendo sparire il tema del conflitto dalla campagna elettorale. (Antonio Pitoni)

Ha visto nella classifica dei voti assoluti, e non delle percentuali, il Pd di Elly Schlein può certamente gioire di più dei Fratelli d’Italia. Tenendo conto del dato dell’astensionismo, per la prima volta sotto il 50 per cento nella storia repubblicana dell’Italia (49,69), il Pd riesce addirittura a migliorare la propria cifra rispetto alle Politiche del 2022, quando votò il 63,91.

I dem infatti registrano una crescita di quasi 200mila voti: dai 5.348.676 (19,04) ai 5.517.657 di oggi (24,04). Il partito meloniano, invece, scende da 7.301.303 voti (25,98) a 6.611.435 (28,80) delle Europee.

In un turno elettorale servito soprattutto a compattare le rispettive tifoserie l’aumento dem è un risultato importante. Non solo. Risulta vincente pure l’idea del partito plurale sbandierata in campagna elettorale dalla leader del Pd. I dem sono secondi in quattro circoscrizioni e primi in una sola. Cioè al Sud, laddove il capolista riformista Antonio Decaro intercetta praticamente un voto su due dato al suo partito, arrivando quasi a mezzo milione di preferenze.

La stessa Schlein è solo terza nei consensi personali, dopo Decaro e pure Bonaccini, ma gli elettori hanno accolto bene il partito plurale di cui la leader è garante. A differenza di quanto accaduto con il Pd lettiano dell’agenda Draghi di due anni fa.

Ha visto Renzi e Calenda pagare un eccesso di personalismo e di arroganza politica che non ha eguali in Europa.

Detto questo, la premier non deve sottovalutare quanto rimarcato da Elly Schlein nel commento a caldo del voto: nel Paese.

L’opposizione (non il campo largo, sia chiaro) è più numerosa delle forze di maggioranza. Il 47,77 contro il 47,55 che arriva al 50 con il risultato dei pacifisti di Michele Santoro.

Ovviamente sarà impossibile tenere tutti insieme alle Politiche (dove peraltro il sistema elettorale è diverso) ma nell’ottica del referendum sul premierato è un dato considerevole, alla luce della catastrofe renziana del 2016. (Fabrizio d’Esposito).

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