Tutto sui Magi: chi erano, da dove venivano, perché sono citati nel Vangelo

Mimmo Muolo venerdì 5 gennaio 2024

Semplicemente sapienti o anche re? Solo tre o in numero maggiore? Bianchi o di colore? E soprattutto di quale provenienza? Partendo dai 12 versetti di Matteo, ricostruiamo la loro carta d’identità

Epifania Mantegna
Epifania Mantegna

I magi questi (s)conosciuti. Si potrebbe titolare così l’atteggiamento generale nei confronti dei “misteriosi” personaggi che il 6 gennaio portano i doni a Gesù Bambino, la cuicarta di identità “ufficiale” (contenuta nel Vangelo di Matteo)è stata arricchita nel corso dei secoli da una lunga, fantasiosa e multiforme tradizione.

Conosciuti, anzi conosciutissimi, perché in ogni presepe che si rispetti non mancano mai, ma al contempo anche sconosciuti, perché nell’immaginario collettivo i confini tra realtà e invenzione sono spesso molto labili. Ad esempio: semplicemente magi o anche re? Solo tre o in numero maggiore? Bianchi o di colore? E soprattutto di quale provenienza? E con quale significato hanno un posto nella Scrittura?

A quest’ultima domanda molte sono le risposte nella catechesi, nella predicazione e nella teologia. Valga per tutte quella che diede papa Francesco nell’omelia dei 6 gennaio 2016: “I Magi – disse il Pontefice rappresentano gli uomini di ogni parte della terra che vengono accolti nella casa di Dio. Davanti a Gesù non esiste più divisione alcuna di razza, di lingua e di cultura: in quel Bambino, tutta l’umanità trova la sua unità”.

I magi hanno avuto una fortuna inversamente proporzionale al breve episodio di cui sono protagonisti nel Nuovo Testamento. Di essi infatti si narra unicamente nei primi dodici versetti del secondo capitolo del Vangelo di Matteo. E tutto ciò che ricaviamo sulla loro identità dal racconto dell’evangelista è racchiuso in tre semplici parole: “Giunsero da oriente”. Non si dice invece che i magi erano tre, né che erano re, né tanto meno si fanno i loro nomi. Da dove derivano, dunque, questi particolari? Attingendo al molto che è stato scritto sull’argomento da autorevoli studiosi, vediamo di separare il “grano” della storia dal “loglio” delle leggende.

La carta di identità dei magi

Fa fede per loro la stessa parola magi, che è una carta di identità ben conosciuta nell’antichità. Quasi cinquecento anni prima che l’apostolo scrivesse il suo Vangelo, ne parla anche lo storico greco Erodoto, che li descrive come una delle sei tribù dei Medi, un antico popolo iranico stanziato in gran parte dell’odierno Iran centrale e occidentale, a sud del mar Caspio.

Essi precisamente costituivano la casta sacerdotale ed erano perciò sacerdoti della religione mazdea (credevano nel Dio unico Ahura Mazda), il cui culto fu riformato nel VI secolo a.C. da Zarathustra. Coltivavano anche l’astronomia ed erano dediti all’interpretazione dei sogni, come attestano fonti storiche riguardanti, ad esempio, l’imperatore persiano Serse.

In quanto astronomi è dunque plausibile che si siano messi in viaggio seguendo una “stella”. Tra l’altro, nel loro credo si parla di un Messia o «Soccorritore», nato da una vergine e annunziato da una stella, destinato a salvare il mondo. A tal proposito lo storico Franco Cardini scrive: “tanta sostanziale esattezza ha mostrato reminiscenze che noi conosciamo soltanto dall’Avesta, giuntoci peraltro attraverso redazioni tardive e non anteriori comunque al III secolo d.C.?”. L’Avesta è, potremmo dire, la Bibbia, ossia il testo della rivelazione,di quella religione.

Dove irrompe la tradizione

La fantasia dei popoli e delle culture si è invece esercitata, lungo i duemila anni della storia cristiana, per dare un volto, un nome e un «curriculum» ai magi evangelici. E qui vengono in primo piano i Vangeli apocrifi che erano molto diffusi e hanno dato linfa alle tradizioni stratificatesi tra l’VIII e il XII secolo dell’era cristiana.

Ad ogni modo, come ricorda Cardini, la maggior parte delle nostre conoscenze tradizionali sui magi deriva da due fonti: la translatio delle loro supposte reliquie da Milano a Colonia, voluta da Federico Barbarossa nel 1164, e il testo del domenicano Giacomo da Varazze, vescovo di Genova alla fine del Duecento e autore della Legenda Aurea, testo composto tra il 1260 e il 1298, anno della morte dell’autore.

Perché re e perché proprio tre?

Probabilmente alla trasformazione dei magi in re ha contribuito anche l’interpretazione, per così dire estensiva, di alcuni passi dell’Antico Testamento, soprattutto Isaia 60,1-6 e Salmi 72,10. Nel primo passo si dice: “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” e si fa riferimento anche a doni come oro e incenso. Nel secondo si elencano i re di Tarsis, di Sceba e di Seba, nell’atto di pagare tributi e offrire doni.

E si conclude dicendo che “tutti i re gli si prostreranno dinanzi, tutte le nazioni lo serviranno”. Non è un caso unico in relazione alla Natività. Anche il bue e l’asinello, assenti dai Vangeli riconosciuti, sono probabilmente arrivati nel presepe grazie a Isaia 1,3: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende”.

Il numero tre – altamente simbolico nella Scrittura – può invece essersi affermato in riferimento ai Magi per affermare che tutto il mondo aveva reso omaggio al Salvatore. Tre era infatti anche il numero dei continenti allora conosciuti. La presenza di un magio di colore completerebbe questo simbolismo, facendo riferimento alle popolazioni africane. Oppure potrebbe essere una deduzione dal numero dei doni: oro, incenso e mirra. Anche questo dal profondo significato simbolico: l’oro per la regalità di Cristo, l’incenso per la divinità e la mirra con riferimento alla morte di Gesù.

I nomi dei magi

Più complesso appare l’enigma dei nomi. Baldassarre sembrerebbe avere un’origine babilonese-caldea, Gaspare iranica, mentre Melchiorre una provenienza fenicia. In questo campo, comunque, è inutile addentrarsi più di tanto in ricostruzioni storiche, dal momento che le tradizioni sono diverse da epoca a epoca e da popolo a popolo.

La stella

C’è poi un altro elemento che ha molto colpito la fantasia popolare: l’astro che guida i magi. Nel Vangelo di Matteo si parla genericamente di una “stella”. Quand’è che essa diviene una cometa, corpo celeste del tutto differente dalle stelle propriamente dette?

Gli studiosi ritengono che la fonte in questo caso vada ricercata non negli Apocrifi (dove di cometa non si parla), ma nell’affresco di Giotto L’adorazione dei magi, dipinto dal grande artista nella Cappella degli Scrovegni a Padova, anche sulla spinta emotiva del passaggio della cometa di Halley, da lui vista nel 1301.

Che cos’era dunque la stella dei magi? Gli studi più recenti, attestati anche da Benedetto XVI nel suo libro sull’infanzia di Gesù, portano a ritenere che si sia trattato di fenomeni celesti realmente avvenuti tra il 7 e il 4 a.C. (che sarebbe poi l’epoca dell’effettiva nascita di Gesù), come l’allineamento di alcuni pianeti (Giove e Saturno, soprattutto) nella costellazione dei Pesci, con un conseguente effetto ottico di straordinaria brillantezza.

I magi in viaggio fino ai nostri giorni

Ma il destino errante dei magi non si sarebbe interrotto con il ritorno al loro Paese – “per un’altra strada”, come scrive Matteo. Sarebbe proseguito anche dopo la loro morte, avvenuta, secondo una leggenda, a Gerusalemme, dove dopo la risurrezione di Gesù essi sarebbero tornati per testimoniare la fede.

Le loro spoglie sarebbero poi state ritrovate da sant’Elena, trasportate a Costantinopoli e in seguito donate a Eustorgio, vescovo di Milano dal 343 al 355 circa, il quale le fece traslare nella sua città. In loro onore edificò quindi una basilica (Sant’Eustorgio, appunto) nel luogo in cui il carro trainato da buoi, che trasportava il pesante sarcofago, si era impantanato nel fango.

Lì le reliquie rimasero fino al 1164, quando Federico Barbarossa se le portò a Colonia, nel cui duomo sono tuttora custodite. Attorno ad esso si svolsero tra l’altro alcuni degli eventi principali della Giornata mondiale della Gioventù del 2005, la prima di Benedetto XVI, proprio ispirata ai magi. Per una volta, si potrebbe dire, non furono essi a muoversi, ma i pellegrini ad andare loro incontro.

Non è superfluo notare, infine, che negli anni Ottanta del secolo scorso le reliquie di Colonia sono state sottoposte a esami scientifici. Ne è risultato che i tessuti sono di tre stoffe distinte, due di damasco e una di taffettà di seta, tutte di provenienza orientale e databili tra il II e il IV secolo. Le leggende, come si suol dire, hanno sempre un fondo di verità.

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/i-re-magi-epifania-cosa-c-e-da-sapere

Mai soltanto per utilità. L’altro nome del dono è meraviglia

Luigino Brunigiovedì 6 gennaio 2022

Quasi mai resistiamo fino all’Epifania per inserire i re Magi nel presepe. Entrano già nel primo allestimento, sebbene all’inizio siano laggiù in fondo, in lontananza, ma sempre dentro l’orizzonte.

Perché i Magi ci piacciono molto per molte cose. Compaiono nella Buona Novella cristiana per visitare un bambino ed escono con discrezione dai Vangeli.

Ci hanno insegnato l’accoglienza – non si va mai a trovare una mamma che ha partorito senza un dono. E ci ricordano che la missione universale di Gesù non si traduce in un potere religioso universale, ma in un messaggio di gioia, di speranza, di pace, di dialogo e fraternità, dono per tutti i popoli e per tutte le religioni.

Dei re Magi non si dice infatti nei Vangeli che divennero cristiani; ma guai a toglierli dal presepe, ci devono stare come Maria e Giuseppe – coloro che credono che il presepe sia una festa troppo confessionale dimenticano i Magi.

Uomini venuti da lontano che ci hanno insegnato l’arte del fare i doni. Se il Natale è la festa dei doni e dei doni per i bambini in modo speciale, lo dobbiamo anche ai Magi.

Entrati nella casa di Maria «videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Matteo 2,11).

Prima si prostrano e adorano, poi consegnano i loro doni. Questo ritmo dei gesti è essenziale: i Magi iniziano la loro visita adorando, prostrati (procidentes, cioè “gettati a terra”), e solo dopo fanno i loro tre doni.

Certo, i Magi adorarono un bambino speciale, adorarono Gesù. Ma loro non sapevano che quel bambino fosse il Figlio di Dio; speravano che fosse un nuovo re, sapevano che era un figlio dell’uomo. E allora in quel loro gesto ci svelano alcune dimensioni antropologiche del dono che valgono anche per i nostri doni, almeno per quelli diversi e decisivi.

Una certa adorazione è il primo movimento del dono. Adorare, dal latino ad-orare, cioè portare alla bocca (os, oris). In Oriente era infatti comune che quando un viaggiatore arrivava in visita da una persona, come prima cosa si portava la mano verso la propria bocca, la baciava e poi con essa lanciava baci verso la persona “adorata”.

Qualche volta si baciavano i piedi, un ginocchio, la mano. Ma la mano alla bocca, soprattutto nel Vicino Oriente, era anche segno di stupore, un linguaggio per dire la meraviglia di un incontro che toglieva il fiato e faceva restare muti di fronte al valore e alla bellezza della persona che si aveva di fronte.

L’adorare è quindi gesto della bocca, ha a che fare con i nostri baci e con il nostro silenzio – la parola greca che usa Matteo per dire “adorare”, proskynesis, letteralmente significa “baciare verso”. E noi lo sappiamo, perché lo abbiamo imparato (e troppo presto dimenticato) dalla nostre nonne, che riempivano di baci le statue di Gesù, di Maria e dei santi, soprattutto Gesù bambino. E poi riempivano di baci purissimi anche noi e i bambini di tutti, perché ricevere infiniti baci purissimi è parte dei diritti della prima infanzia – sono certo che esista un rapporto, anche se non so misurarlo, tra i questi baci ricevuti da piccoli e l’amore che siamo riusciti a donare da grandi.

Solo dopo essersi prostrati, dopo aver adorato, dopo aver lanciato molti baci al bambino e rimasti in silenzio con la mano sulla bocca, i Magi offrirono i loro doni. Quell’oro, incenso e mirra continuano a essere vivi e a parlarci perché furono preceduti da quella stupenda adorazione, della quale furono culmine e compimento.

Tutti sappiamo riconoscere questi “doni adorazione” – nel farli, nel riceverli, nel vederli fare agli altri (il dono gode di una certa transitività: ti vedo fare un dono vero a qualcuno che magari neanche conosco e ti ringrazio).

Li riconosciamo quando, dopo una crisi, un tradimento, nell’ultimo giorno di lavoro, arriviamo da una persona cara con un dono, ma l’oggetto che gli stiamo portando è solo l’ultimo atto. Prima, come i Magi, anche noi ci mettiamo in cammino, andiamo nella sua “casa”, per onorarlo.

Poi, di fronte a lui, a lei, ci fermiamo. Taciamo dentro. Con l’anima ci gettiamo a terra e da lì gli/le mandiamo mille baci, per dire: “Tu per me sei importante, sono venuto qui per dirtelo, tu vali infinitamente di più dell’oggetto che ti sto portando”.

E poi restiamo in silenzio, per qualche secondo, a volte qualche minuto. Magari abbracciati, piangendo insieme, muti: la parola è immensa, ma certe “parole” parlano solo col silenzio. Poi, alla fine, apriamo lo scrigno e sveliamo il dono. E qualche volta alla fine, scoprendo il dono, è l’altro che si mette la mano alla bocca, meravigliato da questa bellezza diversa.

Perché i gesti che l’hanno preceduto e preparato hanno spiegato la semantica del dono, avevano detto il valore di quell’oggetto che abbiamo donato e che resterà dopo che noi ce ne saremo andati. A rendere bellissimi i doni è la loro liturgia relazionale.

Senza di essa la cosa donata è povera, e ogni volta che la guarderemo avrà molto poco da raccontarci e alla fine finirà reclusa al buio di un cassetto. Non sono tanti questi doni-adorazione nella nostra vita, ma non lasceremo la terra senza averne fatti e ricevuti alcuni – almeno uno.

La nostra civiltà ha moltiplicato i regali credendo che la loro moltiplicazione potesse compensare la carestia di doni, l’indigenza di baci lanciati e ricevuti, di silenzio meravigliato e di stupore.

I doni dei Magi a Gesù non erano utili. Una madre con un bambino in fasce avrebbe avuto bisogno di altro. A dirci che i doni non hanno come primo scopo soddisfare i bisogni nostri, dei nostri amici e dei nostri figli (per questo è triste, anche se molto comune, chiedere: “Cosa ti serve per Natale?”).

Il dono è altro. Meglio un dono sprecato (perché non piace) di un “dono” utile – il dono può essere anche utile, ma non deve essere utile, perché il suo valore non sta nella sua utilità ma nella relazione di cui è segno, nell’impegno che ho messo per cercarlo per sorprenderti sapendo di poter fallire (è anche questa la tipica fragilità dei doni, e la loro grandezza).

Questi doni non si ordinano, possono solo farci portare la mano alla bocca. Meraviglia è l’altro nome del dono.

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/luigino-bruni-epifania-2022

La grammatica dei doni-stella

Luigino Bruni

sabato 4 gennaio 2020

Il dono è una delle forme più alte della libertà degli umani. È quindi esperienza tragica. La visita dei magi, narrata dal Vangelo di Matteo, contiene molti elementi della grammatica del dono. Quei saggi sono chiamati da Matteo magoi, una espressione che probabilmente indicava sacerdoti dello Zoroastrismo. Uomini saggi, astronomi e astrologi, venuti da est e da un mondo mitico del passato ma ancora ben presente alla cultura biblica e quindi all’evangelista. Non erano pastori, erano esperti di stelle e di scienza. È bella questa presenza della sapienza e della scienza nel presepe, una benedizione necessaria in questo tempo di crisi.

Sapienti venuti da oriente, probabilmente dalla Persia, l’Iran di oggi, nel pellegrinaggio più bello. Non adoravano lo stesso Dio dell’evangelista. Quegli uomini si misero in cammino verso occidente, inseguendo «una stella», per «adorare» un bambino, che sanno essere «il re dei giudei» (Mt 2,2).

Ecco i primi due elementi di questa speciale grammatica del dono: c’è un cammino e c’è una stella. Cammino dice impegno e dice tempo, gli ingredienti fondamentali di ogni vero dono. Non accettiamo e non gradiamo un dono che sappiamo essere riciclato proprio perché mancano impegno e tempo.

I regali non richiedono molto tempo, ne facciamo molti in poche ore; il dono no, è diverso. Non c’è dono senza un cammino, senza un viaggio materiale o spirituale. Ci si alza, si va a trovare quella persona che abbiamo deciso di onorare con la nostra visita e con il nostro dono. Quasi tutto quello che volevamo dire a quella persona lo diciamo andandola a trovare: è il corpo in movimento a dirle le cose più importanti.

Il dono, l’oggetto che possiamo portare, è segno, sacramento che esplicita e rafforza quanto avevamo già detto con la nostra visita, con il nostro camminare. Il primo dono dei magi fu il loro mettersi in cammino. Altre volte i viaggi sono solo spirituali, come quando vogliamo (e dobbiamo) scrivere il biglietto che accompagna il nostro dono, e viaggiamo indietro e avanti nel tempo in cerca di quelle parole che nascono solo se diamo loro il tempo di fiorire nella nostra anima, viaggiando dentro in compagnia di chi stiamo per onorare con il nostro dono.

Poi c’è la stella. Nei doni, di certo in quelli più importanti, non si parte senza l’apparizione di una “stella” – senza una voce, un segno, una convocazione. Ci si mette in cammino perché qualcuno o qualcosa ci chiama dentro – qualche volta è un grido. Ecco perché ognuno di noi sa riconoscere quei pochi doni che ha ricevuto nella vita perché qualcuno ha seguito, per lui/lei, una stella. Il primo dono (la vita) è arrivato quasi sempre così, perché due persone hanno visto e seguito la stella dell’altra. Ciò che siamo oggi dipende da molte cose, ma dipende soprattutto dai doni-stella che abbiamo ricevuto.

Il Vangelo ci dice che poi i magi, una volta giunti dal bambino, «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima» (2,10). È la gioia la tipica reciprocità di questi doni, una gioia speciale e grandissima che conosciamo solo se e quando facciamo i doni-stella. Sembrano doni unilaterali, ma non è vero, perché questa “gioia grandissima” è una forma essenziale di reciprocità. Persino più grande di quella narrata dal Vangelo (apocrifo) arabo dell’infanzia di Gesù, secondo il quale «Maria donò loro alcune delle fasce del bambino Gesù».

Nel racconto di Matteo, il primo incontro che i magi fanno a Gerusalemme è con Erode. Il re, turbato, raccoglie informazioni su questo ipotetico nuovo re-bambino, fa chiamare i magi e dice loro: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo» (2,8). Perché anch’io venga ad adorarlo. Sulla terra continuano a convivere, una accanto all’altra, l’adorazione dei magi e quella di Erode. L’annuncio dei magi a Erode produce, inintenzionalmente, la prima morte del Nuovo Testamento: la strage degli innocenti.

I magi sono ricordati per i loro doni; ma sono ricordati anche per la strage di Erode. Questo ci dice subito qualcosa di decisivo, che attraverserà tutti i Vangeli, Paolo e l’umanesimo cristiano: il dono confina con la morte. Questa vicinanza si esprime in molti modi, e non tutti belli. Ci sono doni che producono morte perché sono velenosi (gift), perché sotto l’involucro luccicante c’è solo volontà di controllo e manifestazione di forza e di potere.

Sono i doni mortiferi dei mafiosi, dei re e dei faraoni che usano i doni/regali per segnare la distanza, per dirci che sono proprietari dei loro regali e di noi. Ma nello sfiorarsi di morte e dono, in questa prossimità di dòro e thànatos, ci sono anche altre parole. Il dono è ambivalente, perché se non fosse ambivalente non sarebbe una delle parole più belle e alte che possiamo pensare e pronunciare sotto il sole.

Chi conosce il dono buono, quello che nasce dalla nostra irrinunciabile vocazione alla gratuità, sa che il dono lambisce la ferita e la morte perché si colloca al centro della vita nostra e di quella degli altri, cominciando con il primo dono e finendo con l’ultimo, quando in quell’”eccomi” dono e morte saranno una parola sola. Il dono nasce e opera sul confine tra due e più vite, e per questo ha la capacità di incidere la vita, di essere efficace. È come la parola: crea, cambia, segna, insegna, ferisce – cosa può ferirci di più di un dono rifiutato e calpestato?

La Bibbia conosce molto l’ambivalenza del dono, e anche per questo ne parla poco, e quando ne parla (Isaia) lo fa quasi sempre per metterci in guardia nei confronti dei doni/regali velenosi senza gratuità. Ma soprattutto ce ne parla facendo iniziare il racconto della storia umana con il dono di Caino non gradito da Dio-Elohim, un dono rifiutato che produsse il primo omicidio-fratricidio del mondo. Erode è l’anti-dono, il nuovo Caino, colui che non sa “adorare” e non sa donare. I magi sono come Abele, il fratello mite che sapeva fare i doni, che si mise in cammino verso i campi, e il cui sangue bagna la terra della Buona Novella, e Dio continua a sentire il suo odore.

I magi portano in dono «oro, incenso e mirra» (2,11). Per dire regalità (oro), divinità (incenso), e corporeità (mirra). La grammatica e la sintassi del dono continua a svelarsi. In ogni incontro che nasce dal dono, ti dico che hai la dignità di un re, che sei sacro come un dio, e che sei un essere umano, e quindi il tuo limite e la tua futura morte non sono maledizione e condanna, ma compito e destino. Questi sono gli accidenti che solo insieme fanno la sostanza del dono, che consiste nell’onorare.

«Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (2,11). C’è anche Maria nel dono dei magi, una sorpresa e una gioia aggiunte alla loro gioia che era già grandissima. E in Maria possiamo rivedere un’altra amica biblica dei magi: la regina di Saba, che partì da lontano, con molti doni, per conoscere e onorare la sapienza. Il dono dei magi è un altro Magnificat dei Vangeli, e la visita di Maria ad Elisabetta è l’episodio che più gli assomiglia. Maria accolse con fiducia i magi dentro casa, li fece entrare, li riconobbe come ospiti buoni, accettò il dono.

E infine, anche i magi, come Maria con Elisabetta, dopo aver fatto il loro dono presero la via di casa. È questa l’ultima nota dell’arte del dono, che non si chiude con la sua accettazione, ma col ripartire. Chi conosce quest’arte perché l’ha appresa per tutta la vita, sa che «fare ritorno a casa» è il capolavoro del dono, perché dice castità, una parola essenziale in ogni dono, sorella gemella della gratuità.

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/luigino-bruni-epifania

L’essenza del dono


Luigino Bruni sabato 22 dicembre 2012

Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni.

I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti…

Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle ‘offerte’ e dei ‘sacrifici’ cultuali.

I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.

Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche ‘doni’.

Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve.

Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali ‘monete’ sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di ‘alzarsi in fretta’ e di ‘mettersi in cammino’ verso l’altro.

Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping. Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine.

Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia.

Quella penna non era un regalo: era un segno, ‘sacramento’ di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso. Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.

1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.

2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il ‘che cosa’, ma anche il ‘come’, il ‘quando’, il ‘dove’ il dono viene donato-ricevuto.

3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la con­presenza di chi dona e di chi riceve. È una visitazione, guardare, osservarsi.

L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono. I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano.

Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto.

È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora».

Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono. Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del con­dono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.

Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore.

E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono. Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/lessenzadeldono

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