Francesco Caracciolo. Al suo nome è intitolata la strada napoletana più celebre nel mondo. Nella sommarietà e crudeltà della sua fine non è estraneo il sospetto di risentimenti personali di Nelson che mutò, di propria iniziativa, l’iniziale condanna alla prigionia in impiccagione immediata.
Per l’ammiraglio inglese c’è l’attenuante (se tale si può considerare) che: «…l’odio dell’inglese, contro i francesi e i loro partigiani, lo accecasse e lo spingesse ad atti selvaggi e sleali […] e anche l’ipotesi che egli ubbidisse ad ordini segreti del governo inglese, che volevano perpetuare nell’Italia meridionale l’antitesi e la discordia tra sovrani e sudditi, in modo che l’Inghilterra avesse sempre un piede in queste regioni, e potesse valersi delle due Sicilie pei suoi scopi militari e commerciali.» (Benedetto Croce, La repubblica napoletana del 1799).
Il più grande marinaio che mai Napoli abbia annoverato, pagò cara la sua scelta di schierarsi contro il re Borbone, Ferdinando IV.
Il re di Napoli e il capo del gabinetto, Giovanni Acton, sapevano di poter contare sulla assoluta disponibilità dell’ammiraglio inglese Lord Orazio Nelson, notoriamente in stretto rapporto con Emma Hamilton, moglie di sir William Hamilton, ambasciatore inglese a Napoli, amante dello stesso ammiraglio Nelson e amica confidente della regina Maria Carolina.
Dopo che, il 10 dicembre 1798, l’esercito napoletano fu clamorosamente sconfitto dai Francesi, Il 23 gennaio 1799 il generale Championnet entrava in Napoli e i patrioti proclamavano la Repubblica Partenopea.
Lady Hamilton, moglie dell’ambasciatore inglese e amante dell’ammiraglio Nelson, aveva fatto appena in tempo a suggerire a re Ferdinando IV e a sua moglie Carolina di riparare in Sicilia.
Francesco Caracciolo dimostrò di essere un ammiraglio accorto e abile. Nel dicembre del 1798 scortò con la sua fregata, la Sannita, il convoglio navale guidato dall’ammiraglio Nelson che trasportava re Ferdinando e la consorte Maria Carolina, in fuga verso Palermo per l’arrivo delle truppe francesi a Napoli.
Durante la traversata del Tirreno, la flotta napoletana si ritrovò nel bel mezzo di una tempesta. Pietro Colletta descrive come magnifica la navigazione di Caracciolo, pur col medesimo mare in tempesta che invece tormentava l’andamento del vascello reale affidato al Nelson.
Addolorato per l’affondamento in porto della flotta partenopea a Napoli, avvenuto su ordine di Nelson, e costretto a disarmare la propria nave ammiraglia, a Messina, chiede al re licenza di recarsi a Napoli per curare il suo patrimonio.
Il 3 marzo Francesco Caracciolo rientra a Napoli. Fu quel giorno stesso che la sua sorte venne segnata. Finì infatti per cedere alle insistenze dei repubblicani: “Il re ha tradito il popolo abbandonando Napoli, e tu dunque mettendoti con noi non rinneghi alcun giuramento”.
Divenuto ministro della marina repubblicana, Caracciolo dichiarò: “Iddio mi è testimonio che solo l’amore per la Patria mi induce a questo”, fermo nella convinzione che “gli Inglesi sono ragione di ogni rovina perché sacrificano ogni diritto al loro interesse”.
L’ammiraglio Caracciolo si segnalò per una serie di azioni navali, fra le acque di Ischia e Procida, che misero in grave difficoltà la flotta anglo-borbonica che dovette darsi alla fuga, colpendo fra l’altro, nel corso degli scontri, la nave Minerva dell’ammiraglio inglese Thurn.
Dal Sud però saliva l’armata sanfedista guidata dal cardinale Ruffo. Il 13 giugno, già alle porte di Napoli si combatteva.
Caracciolo, dalla sua nave, cannoneggiava gli assalitori. La lotta divenne di ora in ora sempre più insostenibile: i sostenitori della Repubblica Partenopea dovettero chiedere la resa. I patti firmati dal cardinale Ruffo e dai rappresentanti delle potenze straniere prevedevano la totale incolumità per Francesco Caracciolo.
Nonostante questo, il 29 giugno 1799, fu arrestato e condotto sulla nave di Nelson, il vascello Foudroyant, per essere sottoposto ad un processo sommario. La condanna all’ergastolo che ne seguì fu mutata in condanna a morte per volere dello stesso Nelson. Così Il corpo dell’ammiraglio fu appeso ad un pennone della Minerva. Il suo corpo, gettato a mare con un sacchetto di zavorra legato ai piedi, s’inabissò subito.
Il corpo di Francesco Caracciolo riaffiorò molti giorni dopo, esattamente il 10 luglio. Forse perché il peso della zavorra era stato insufficiente, forse per un imprevisto gioco delle correnti.
Riaffiorò e andò a urtare sotto il bordo del vascello Foudroyant, nave ammiraglia di Nelson, proveniente da Palermo, che riportava a Napoli Ferdinando IV e sua moglie. Il sovrano inorridì dal pessimo presagio e volle che una scialuppa fosse calata in mare e che il cadavere fosse recuperato.
Fu deciso così di seppellire l’ammiraglio Francesco Caracciolo nella Chiesa di Santa Maria della Catena, di una confraternita di pescatori e marinai dell’antico borgo di Santa Lucia.
Fu solo nel 1881, con la riapertura al culto di questo edificio sull’antica cinta muraria, che fu posto un epitaffio in memoria di Caracciolo, ricordato come grande ammiraglio della Repubblica.
Al suo rientro a Napoli, Ferdinando IV fece invece disperdere i resti di Masaniello , che era sepolto nella basilica del Carmine, dal momento che capopopolo napoletano protagonista della rivolta del 1647 era stato adottato come simbolo dai repubblicani.
Ottenuta la resa, però restava da decidere come trattare le centinaia di persone che avevano prestato servizio alla Repubblica napoletana.
Ai repubblicani trincerati in Castel Sant’Elmo, il Comandante Generale del Re, Fabrizio Ruffo, offrì una “onorevole capitolazione”, concedendo loro di optare per la fuga, imbarcandosi o seguendo le guarnigioni francesi, che avevano già abbandonato la città.
Ma appena questo accordo fu sottoscritto ed accettato anche dai comandanti delle truppe regolari presenti all’assedio (comandanti delle navi inglesi e di alcuni contingenti russi e turchi), Ferdinando IV e la regina Carolina, sentendosi forti dell’appoggio inglese, lo esautorarono dal comando.
Nei mesi seguenti, con una giunta nominata da Ferdinando, cominciarono dunque i processi contro i repubblicani: su circa 8.000 prigionieri.
124 vennero mandati a morte (si veda l’elenco dei repubblicani napoletani giustiziati nel 1799), 6 furono graziati, 222 condannati all’ergastolo, 322 a pene minori, 288 alla deportazione e 67 all’esilio.
Tanti furono gli appelli di molte case regnanti europee, ma tutto fu inutile, inutile fu anche l’accorato appello di Paolo I Petrovič Romanov, Zar dell’Impero Russo che scrisse al re Ferdinando IV di Borbone: «Cugino Ferdinando, ti ho inviato i miei battaglioni per aiutarti a riconquistare il regno perduto, ma tu non puoi mandare a morte il fiore della cultura napoletana».
D’altronde lo stesso zar era ben a conoscenza del trattato internazionale di resa firmato dai patrioti repubblicani, ai quali si avrebbe dovuto, all’uscita dai forti, rendere gli onori militari, come dalla III clausola del trattato internazionale che recitava: “ Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi , bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul lido”.
Per lo zar Paolo I era stato Baillie a porre la firma all’accordo, come avevano fatto Ruffo e Micheroux per il Borbone, Bonieu per la Turchia, Foote per l’Inghilterra, Méjèan per i Francesi, e Massa per la Repubblica Partenopea.
Tra i condannati vi erano alcuni tra i nomi più importanti della classe nobiliare, borghese e intellettuale di Napoli, provenienti da diverse province meridionali, che avevano dato il loro appoggio alla Repubblica; tra questi il giurista Ercole D’Agnese, Nicola Pacifico, Pasquale Baffi, Mario Pagano, Cristoforo Grossi, Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice, Ignazio Ciaia, Nicola Palomba, Domenico Cirillo, Giuseppe Leonardo Albanese, Vincenzio Russo, Francesco Caracciolo, Ettore Carafa, Michele Granata, Gennaro Serra di Cassano, Niccolò Carlomagno, il vescovo Michele Natale giustiziati, Giustino Fortunato senior, evaso dal carcere, e Vincenzo Cuoco, condannato all’esilio, pena in cui incorse anche il vescovo Bernardo della Torre, vicario generale dell’arcidiocesi di Napoli.
Il meridionalista Giustino Fortunato ricorda così i giustiziati della Repubblica napoletana:
«Parlo di quella vera ecatombe, che stupì il mondo civile e rese attonita e dolente tutta Italia: l’ecatombe de’ giustiziati nella sola città di Napoli dal giugno 1799 al settembre 1800 per decreto della Giunta Militare e della Giunta di Stato.
Il mondo, e l’Italia specialmente, sa i nomi e l’eroismo di gran parte di quegli uomini, sente ancor oggi tutto l’orrore di quelle stragi, conosce di quanto e di quale sangue s’imbevve allora quella piazza del Mercato, in cui al giovinetto Corradino fu mozzo il capo il 29 ottobre del 1268, e il povero Masaniello tradito e crivellato di palle il 16 luglio del 1647; ma pur troppo, ignora ancora tutti i nomi di quei primi martiri della libertà napoletana!»
La feroce repressione della Repubblica napoletana e lo sterminio dei patrioti che in essa avevano svolto funzioni di governo, partecipato alla attività legislativa educativa ed economica e prestato la loro opera per difenderla furono una delle maggiori tragedie della storia italiana, talvolta dimenticata.
Il primo studioso italiano a dare di essa un inappellabile giudizio storico e morale fu lo storico e filosofo Benedetto Croce, secondo il quale la perfidia dei sovrani e di Nelson destarono una forte impressione non solo in Italia e in Francia, ma anche in Inghilterra, dove Charles Fox pronunciò un acceso discorso alla Camera contro il comportamento dell’ammiraglio.
«La condanna della reazione borbonica del Novantanove è una delle più fiere condanne morali che abbia pronunciato la storia. Sì, certo, le nostre simpatie personali sono per quei vinti contro quei vincitori: sono pei precursori dell’Italia nuova contro i conservatori dell’antica: sono pel fiore dell’intelligenza meridionale contro l’espressione massima dell’oscurantismo internazionale. Ma per quei vinti e contro quei vincitori, ci è di più la ribellione del nostro sentimento etico.»
Così scriveva Benedetto Croce, che continuava identificando i responsabili della sanguinosa repressione:
«Lasciamo da parte i consiglieri per cortigianeria o per esaltazione e il canagliume ch’è sempre pronto e disposto a tutto. Ma i grandi responsabili restano tre: re Ferdinando, Carolina d’Austria e il Nelson.»
Il giudizio sui primi due è senza appello:
«A re Ferdinando si è fatto forse troppo onore chiamandolo un tiranno. […] Egli pensava alla caccia, alle femmine e alla buona tavola; e purché gli lasciassero fare le dette cose, era pronto a intimare la guerra, a fuggire, a promettere, a spergiurare, a perdonare e ad uccidere, spesso ridendo allo spettacolo bizzarro.»
La regina Maria Carolina è giudicata
«…una donna che, oltre le scorrettezze e turpitudini della vita privata, è stata colta in una serie di menzogne flagranti e di violazioni di impegni solenni presi sull’onore e sulla fede. […] Spirito torbido, non ebbe né elevatezza mentale, né accorgimenti e prudenza; fece di continuo il danno suo e di tutti.»
Per l’ammiraglio inglese c’è l’attenuante (se tale si può considerare) che
«…l’odio dell’inglese, contro i francesi e i loro partigiani, lo accecasse e lo spingesse ad atti selvaggi e sleali […] e anche l’ipotesi che egli ubbidisse ad ordini segreti del governo inglese, che volevano perpetuare nell’Italia meridionale l’antitesi e la discordia tra sovrani e sudditi, in modo che l’Inghilterra avesse sempre un piede in queste regioni, e potesse valersi delle due Sicilie pei suoi scopi militari e commerciali.»
(B. Croce, La repubblica napoletana del 1799, pp. XV-XVII; cfr. anche Filippo Ambrosini, L’albero della Libertà. Le Repubbliche giacobine in Italia 1796-99, Edizioni del Capricorno, Torino 2014, pp. 242-247)