Sebbene l’aspirazione ebraica a ritornare a Sion fosse stata parte del pensiero religioso ebraico per più di un millennio, la popolazione ebraica dell’Europa e, in una certa misura, del Medio Oriente cominciò a discutere più attivamente dell’immigrazione in Terra d’Israele e del ristabilimento della nazione ebraica, solo tra il 1859 e il 1880, in gran parte come soluzione alla diffusa persecuzione degli ebrei e all’antisemitismo in Russia e in Europa.

Di conseguenza, il movimento sionista per la creazione di un patria del popolo ebraico, venne costituito come movimento politico nel 1897 da Theodore Herzl, per stabilire una patria per il popolo ebraico nella Palestina controllata dall’ Impero Ottomano, una regione che, nella tradizione ebraica, corrisponde più o meno alla Terra di Israele, sognando uno Stato ebraico quale «bastione dell’Europa contro l’Asia, avamposto della civiltà contro la barbarie».
Il movimento sionista chiedeva la creazione di uno stato nazionale per il popolo ebraico in Palestina, che fungesse da rifugio per gli ebrei del mondo e nel quale essi avrebbero avuto il diritto all’autodeterminazione e arrivarono a sostenere che questo Stato dovesse trovarsi nella loro patria storica, che chiamavano Terra d’Israele.
L’Organizzazione Sionista Mondiale e il Fondo Nazionale Ebraico incoraggiarono l’immigrazione in Palestina e finanziarono l’acquisto di terre, sia sotto il dominio ottomano che sotto quello britannico.
L’acquisizione di terre per insediamenti ebraici, crearono tensioni perché la popolazione precedentemente residente in Palestina si sentì espropriata delle proprie terre. In seguito alle denunce delle popolazioni locali furono invocate le norme ottomane sull’acquisto di terreni. Di conseguenza, nel 1892 le autorità ottomane vietarono la vendita di terreni agli stranieri.
I politici ottomani alla fine del XIX secolo erano preoccupati per la crescente influenza russa ed europea nella regione, in parte come risultato di una grande ondata di immigrazione dall’Impero russo e temevano che un ingresso di tanti nuovi immigrati avrebbe potuto, minare il controllo turco della Palestina non tanto perché fossero ebrei, ma per la preoccupazione che la loro lealtà fosse principalmente verso il loro paese di origine, principalmente la Russia, con cui l’Impero Ottomano aveva una lunga storia di conflitti.
I pogrom antiebraici in Russia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e la legislazione anti-immigrazione emanata in Europa fu il motivo per cui ondate di immigrati ebrei iniziarono ad arrivare in Palestina e diedero origine alla prima Aliyah: quest’ondata di migrazione cominciò negli anni 1881-1882 e terminò intorno al 1903. In questo periodo circa 25.000-35.000 ebrei immigrarono nella Palestina.
La Seconda Aliyah si verificò tra il 1904 e il 1914, periodo durante il quale circa 40.000 ebrei immigrarono nella Palestina, soprattutto dalla Russia e dalla Polonia. Nel 1914 la popolazione ebraica in Palestina era salita a oltre 60.000, di cui circa 33.000 erano coloni recenti.
Nel 1917, gli inglesi riuscirono a sconfiggere le forze ottomane ed occuparono la regione della Palestina. Il territorio rimase sotto l’amministrazione militare britannica per il resto della guerra. Alla Conferenza di pace di Parigi del 1919 e al Trattato di Versailles, fu formalizzata la perdita del suo impero in Medio Oriente da parte della Turchia.
Sempre del 1917 è la Dichiarazione di Balfour, emanata dal governo britannico per sostenere l’idea di un focolare ebraico in Palestina, il che portò ad un afflusso di immigrati ebrei nella regione.
L’immigrazione ebraica in Palestina continuò a crescere in modo significativo durante tutto il periodo del mandato britannico in Palestina, principalmente a causa della crescita dell’antisemitismo in Europa. Tra il 1919 e il 1926, 90.000 immigrati arrivarono in Palestina a causa delle manifestazioni antisemite, come i pogrom in Ucraina in cui furono uccisi 100.000 ebrei.
Alcuni di questi immigrati furono assorbiti nelle comunità ebraiche stabilite su terre acquistate legalmente dalle agenzie sioniste. In alcuni casi, l’acquisizione di latifondi, ha portato alla sostituzione dei fittavoli palestinesi con coloni ebrei europei, alimentando le proteste dei palestinesi sfrattati.
L’immigrazione ebraica in Palestina fu particolarmente significativa dopo l’ascesa al potere dei nazisti in Germania, in seguito alla quale la popolazione ebraica in Palestina raddoppiò.
Dopo la seconda guerra mondiale e l’Olocausto, la pressione internazionale per la creazione di uno stato ebraico in Palestina aumentò, portando così alla creazione di Israele nel 1948, in seguito alla guerra che seguì la risoluzione Onu 181 (29 novembre 1947) per la spartizione della Palestina mandataria in due stati, nacque lo Stato d’Israele. Ma nel 1948 ebbe luogo anche la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra.
Lo storico israeliano Ilan Pappe nel suo libro “La pulizia etnica della Palestina” edito in italia nel 2008, spiega che la vulgata israeliana ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del Mandato britannico in Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il movimento sionista era d’accordo, ma il mondo arabo si oppose; per questo, entrò in guerra con Israele e convinse i palestinesi ad abbandonare i territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare l’ingresso delle truppe arabe. La tragedia dei rifugiati palestinesi, di conseguenza, non sarebbe direttamente imputabile a Israele.
Ilan Pappe, ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians israeliani, ha studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi militari desecretati nel 1998) esistente su questo punto cruciale della storia del suo paese, giungendo a una visione chiara di quanto era accaduto nel ’48 drammaticamente in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in particolare sotto la dirczione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina.
Per gli israeliani 1948 è l’anno della proclamazione dello Stato d’Israele; i palestinesi lo ricordano, invece, come la “nakba”, «la catastrofe», e dunque la distruzione e lo spopolamento di circa 400 villaggi (con il conseguente dramma di oltre settecentomila profughi palestinesi).
Quella della terra è dunque una questione chiave del conflitto israelo-palestinese, che dalle origini ad oggi si gioca anche su pochi centimetri di territorio.
Secondo quanto afferma Amnesty International, furono tre i principali atti legislativi che costituirono il nucleo del regime fondiario israeliano e che svolsero un ruolo importante in questo processo:
l’ordinanza britannica per la terra (Acquisizione a scopo pubblico) del 1943, che consentiva al ministro delle Finanze di espropriare terreni per qualsiasi scopo pubblico;
la legge sulla proprietà degli assenti (legge sul trasferimento della proprietà) del 1950;
la legge sull’acquisizione di terre del 1953, che ha «legalizzato» retroattivamente l’esproprio delle terre di cui lo stato e l’esercito israeliano avevano preso il controllo, utilizzando i regolamenti di emergenza dopo il conflitto del 1947-’49.
Ben Gurion disse: «Dobbiamo lottare contro lo spirito del Levante che corrompe gli individui e la società, e preservare gli autentici valori ebraici fissati nella diaspora».
Abba Eban disse: «L’obiettivo è inculcare uno spirito occidentale, invece di farci trascinare verso un orientalismo contro natura»
Infine Golda Meir (intervista al Sunday Times del 15 giugno 1969) disse: «Non esistono palestinesi. Non è come se esistesse qui un popolo palestinese che si reputa tale e noi fossimo venuti a buttarlo fuori. I palestinesi non esistono».
Per la verità, fino al primo ‘900 i palestinesi erano mezzo milione, a fronte di circa 50.000 ebrei. Poi affluirono gli scampati ai pogrom e ai lager, ma ancora nel 1945 si contavano solo 600.000 ebrei (pari a quanti risiedono oggi – ironia dei numeri – nei Territori Occupati).
La tragedia della nakba nel 1948 – e poi le vittorie militari del 1956, 1967, 1973 – permisero a Israele di lanciarsi in una politica d’immigrazione a tutto campo.
Dalla sola Urss sbarcò un milione di ebrei, veri o presunti, in genere digiuni di giudaismo. Israele, retto da ashkenaziti, fece di tutto per cancellare dai Paesi arabi le comunità sefardite e mizrahi.
L’Unione Sovietica fu la prima nazione a riconoscere pienamente Israele de jure il 17 maggio 1948, ma Israele fece nel 1956 l’imperdonabile, agli occhi dei sovietici, scelta di unirsi a francesi e inglesi nel tentativo di riappropriarsi del Canale di Suez nazionalizzato da Nasser. Si capì allora con chi stava il giovane Stato: era ormai una testa di ponte occidentale, definita “l’unica democrazia in Medio Oriente”.
Vero è che la dichiarazione d’indipendenza recita: «Israele garantirà completa parità sociale e politica a tutti gli abitanti, senza distinzione di religione o di razza». Ma in realtà discrimina chi ebreo non è: ha incarcerato almeno una volta il 40% dei palestinesi maschi; attua esecuzioni mirate senza rispettare le proprie leggi; vieta i matrimoni misti; concede ai coloni (illegali) ogni diritto negato ai palestinesi che vivono (legalmente) a casa propria.
In seguito alla guerra del 1967 lo scenario si complicò ulteriormente. Dopo aver dichiarato vittoria, Israele estese la sua amministrazione sull’intera penisola del Sinai (poi restituita all’Egitto nel 1978), la Striscia di Gaza, i territori della Palestina (compresa Gerusalemme Est), sottratti alla Giordania, e le alture del Golan a nord-est (prima territorio della Siria).
Fu in quel momento che nacquero i primi insediamenti, conosciuti anche come «colonie».
Pioniere di tale operazione fu il rabbino Moshe Levinger che, con un gruppo di ebrei ultra religiosi, nel 1968 decise di tenere un seder pasquale,cena rituale, il momento centrale della Pasqua ebraica (Pesach), che commemora la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto, al Park Hotel di Hebron.
Dopo sei settimane trascorse al Park Hotel, il governo decise di trasferire questo gruppo nell’edificio dell’amministrazione militare di Hebron e, dopo oltre un anno, lo stesso divenne poi il nucleo fondante della colonia israeliana di Kiryat Arba.
L’importanza di Hebron, sacra per gli ebrei in quanto conserva quella che è considerata la tomba dei patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca e Lea), rese la città teatro di rivendicazioni e violenze quotidiane che continuano fino ai nostri giorni.
Dopo il 1967, Israele iniziò un processo di acquisizione di alcuni territori palestinesi, motivato inizialmente da «scopi militari».
Nel 1979 però un gruppo di palestinesi decise di fare ricorso all’Alta Corte di Giustizia israeliana (HCJ) per fermare un ordine di sequestro di terreni di proprietà privata palestinese vicino a Nablus, destinati a fondare l’insediamento israeliano di Elon Moreh.
I giudici stabilirono che il sequestro della terra era determinato a servire uno scopo civile (insediamento di coloni) invece che militare e che quindi violava il diritto internazionale. Israele pianificò dunque nuovi insediamenti solo su terreni dichiarati demaniali.
Successivamente, però, introdusse una nuova interpretazione del Codice fondiario ottomano (che regolava la proprietà fondiaria), per dichiarare demaniale anche quella che, sotto il dominio britannico e poi giordano, era considerata proprietà privata o collettiva palestinese.
Una delle richieste fatte ai palestinesi, come prerequisito per acquisire diritti di proprietà su alcuni terreni agricoli, era per esempio di dimostrare che venissero regolarmente coltivati.
Un’indagine comparativa, condotta dalla organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem nell’area di Ramallah, ha rivelato enormi differenze tra la quantità di terra che la Giordania definiva proprietà del governo, e la quantità di terra che Israele dichiarava terra statale, in aree che i giordani non erano riusciti a registrare prima del 1967.
Sull’esempio dei primi coloni di Hebron, sono migliaia i civili israeliani di diversi gruppi militanti ultra religiosi o di estrema destra che continuano, ogni anno, a fondare piccoli avamposti in Palestina.
Gli insediamenti sono solitamente circondati da forti recinzioni e sono difesi, spesso, dagli stessi coloni, dotati di armi da fuoco.
Questi civili armati occupano territori nella notte, impediscono il passaggio ai palestinesi, controllano le risorse idriche e poi costruiscono case e strade, nella speranza che il governo israeliano le riconosca come colonie.
Gli insediamenti, creano, infatti, ciò che gli israeliani definiscono «nuovi fatti sul terreno», che fondano le radici di una comunità ebraica in territorio palestinese.
A motivare questi coloni sono talvolta argomenti religiosi, come la credenza che la terra, promessa da Dio agli ebrei nella Torah, si estenda a tutto il territorio dell’antica terra d’Israele.
Secondo alcuni israeliani, la presenza delle colonie sarebbe uno strumento per garantire un controllo permanente sul territorio e, dunque, maggiore sicurezza. Altri sostengono invece che la convenienza economica spingerebbe gli ebrei a stabilirsi negli insediamenti, dati i cospicui incentivi statali forniti.
L’esistenza delle colonie, unitamente alla costruzione della barriera di separazione israeliana, ha determinato, negli anni, la frammentazione del territorio palestinese, concentrato in 165 «isole».
Questa frammentazione si è sovrapposta alla divisione territoriale seguita agli Accordi di Oslo, che ha determinato la costituzione di tre aree: area A, amministrata dal governo palestinese, area B, sotto controllo civile palestinese e controllo congiunto di sicurezza israelo-palestinese e area C, sotto l’amministrazione israeliana.
In questo contesto complesso, la vita quotidiana in Palestina, nei luoghi dove sorgono le colonie, è tristemente distinta da un clima ostile, che sfocia a volte in atti di violenza da parte dei coloni. (Una violenza che è cresciuta a dismisura dal 7 ottobre).
Nel 1978 Ezra Ben Hakham Eliyahu denunciò: «L’immigrazione di massa in Israele ha sradicato le comunità sefardite. Hanno perso i loro paesi, le proprietà, usanze, lingua, l’intero patrimonio culturale».
E un sefardita marocchino, Reuben Abarjel, lamentava: «Nessun Governo arabo ha mai esercitato sui mizrahi una violenza simile a quella del regime ashkenazita, che ha rapito bimbi per darli in adozione e ha sterilizzato donne ritenute incapaci di migliorare il “genio ebraico”».
Il rapimento si riferisce agli anni ’50, quando 1060 bimbi portati via dallo Yemen furono tolti ai genitori e affidati a famiglie ashkenazite.
Sono memorie da cancellare affinché si continui a vedere i “padri fondatori” come idealisti – e non pochi lo erano. Ma di fatto fu un’operazione neo-coloniale ammantata di retorica del kibbutz.
Il 15 novembre 1988 Yasser Arafat proclamò la Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Palestina con l’obiettivo di stabilire uno Stato palestinese nei territori occupati da Israele nel 1967, Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est che venne indicata come capitale dello Stato di Palestina.
Il 13 settembre 1993, a Washington, capitale degli Stati Uniti d’America, furono firmati gli accordi di Oslo. Shimon Peres firmò per conto dello Stato d’Israele, Yasser Arafat firmò per conto dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
Alla cerimonia parteciparono in veste di garanti Warren Christopher per gli Stati Uniti d’America ed Andrei Kozyrev per la Russia, alla presenza del presidente statunitense Bill Clinton e del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin.
Gli accordi di Oslo hanno portato all’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese – con il compito di autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza – e hanno riconosciuto l’OLP come partner di Israele nei negoziati sulle questioni in sospeso.
I negoziati proseguirono portando nel 1995 ai cosiddetti accordi di Oslo 2, che ampliavano l’autogoverno ad altre parti della Cisgiordania.
Oslo 2, venne firmato a Taba, nella penisola del Sinai, in Egitto, da parte di Israele e l’OLP il 24 settembre 1995 e poi quattro giorni più tardi il 28 settembre 1995 dal presidente dell’OLP Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, diventato Primo ministro anche se aveva avuto un’origine politica da terrorista il cui gesto più noto furono i massacri di donne e bambini perpetrati nel ’48 nei villaggi palestinesi – famosa la strage a Deir Yassin – a opera della “banda Stern” guidata da Begin.
Oslo 2 fu attestato dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, nonché dai rappresentanti di Russia, Egitto, Giordania, la Norvegia e l’Unione europea – a Washington.
Con lo sguardo lungo si scorge meglio quando è iniziato il cammino verso il suicidio di Israele: il 4 novembre 1995, con l’assassinio di Rabin per mano di un ebreo estremista.
Pochi giorni prima eravamo (parla Giuseppe Cassini) al Vertice di Amman e tutto lasciava presagire una pace imminente. «La pace si negozia con i nemici – ripeteva Rabin – e la faremo a ogni costo». A ogni costo? A lui costò la vita. Poi fu un seguito di occasioni sprecate e di violenze inaudite.
Marzo 2002. Da osservatore al vertice della Lega Araba a Beirut, vidi (parla Giuseppe Cassini) il re saudita Abdullah presentare un vero piano di pace, approvato da tutta la Lega. Finalmente ci siamo – pensavo. No, Israele non la pensava così e il Piano Abdullah fu riposto in un cassetto.
Gennaio 2006. Libere elezioni in Palestina e netta vittoria del partito di Hamas a Gaza; ma Israele spinse gli USA e l’UE a disconoscerne l’esito, benché gli osservatori internazionali avessero confermato la piena regolarità delle elezioni. Hamas ne trasse le conclusioni. Altrettanto fece Netanyahu, a modo suo.
Dal 2012 iniziò a foraggiare Hamas con fondi del Qatar, allo scopo di indebolire l’ANP e spaccare il fronte palestinese. Ma Hamas stornava parte dei fondi per armare la Striscia di Gaza e Netanyahu non guardava: una partita a poker sui bordi del precipizio. Entrambi erano pronti a tutto pur di ostacolare la formula “due popoli, due Stati” (come aveva detto Ben Gurion: «Più la tireremo in lungo, più ci porterà vantaggio»).
Nel 2012, la Palestina fu ammessa come Paese osservatore (non membro) alle Nazioni Unite.
Il 2013 segna un momento di svolta: il Vaticano prende ufficialmente posizione della questione arabo-israeliana, e la Santa Sede ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina con l’Accordo Globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina.
Il Preambolo di quell’accordo internazionale supporta pienamente una risoluzione giusta, comprensiva e pacifica della questione della Palestina, in tutti i suoi aspetti, in conformità al diritto internazionale e a tutte le pertinenti risoluzioni dell’ONU.
Al contempo, sostiene uno Stato di Palestina che sia indipendente, sovrano, democratico e praticabile, inclusivo della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza. Il medesimo accordo individua questo Stato non in opposizione ad altri, ma capace di vivere fianco a fianco dei suoi vicini, in pace e in sicurezza.
Nel 2017 Israele ha festeggiato il centenario della “Dichiarazione Balfour”, una lettera con cui il ministro degli Esteri britannico prometteva a Lord Rothschild uno Stato ebraico in Palestina. Questo il commento di Gideon Levy, editorialista di Haaretz: «Non era mai successo nulla di simile: un impero [la Gran Bretagna] promette una terra non sua [la Palestina] a un popolo che non ci vive [gli ebrei] senza chiedere il permesso a chi ci abita [i palestinesi]». L’ironia di Gideon Levy faceva giustizia del falso mantra: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Il premier chiuse gli occhi anche quando nel 2023 lo avvisarono che oltre i muri di Gaza si stavano facendo esercitazioni militari non proprio difensive.
Fino all’orrore del 7 ottobre 2023, l’attacco a Israele pianificato e operato da Ḥamās, con il sostegno di altre milizie palestinesi, che è consistito in una serie di irruzioni terroristiche di gruppi armati, provenienti dalla Striscia di Gaza, con conseguente uccisione di 1200 civili e militari israeliani, e nel rapimento di circa 250 di questi, avvenuto nel territorio di Israele.
Circa 250 persone, di cui circa 30 bambini, sono state rapite e portate come ostaggi nella Striscia. Sono stati segnalati numerosi casi di stupri e violenze sessuali contro donne israeliane.
In un solo giorno, nelle località, nei kibbutz, perfino in un festival musicale, il Nova festival, a cui partecipavano all’incirca 3.000 giovani pacifisti, e nelle basi militari, vicini al confine fra Israele e la Striscia di Gaza, sono stati uccisi 859 civili israeliani, fra i 278 e 307 soldati dell’esercito e 57 membri delle forze dell’ordine.
All’orrore del 7 ottobre è seguita la reazione militare dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza che il rapporto A/HRC/60/CRP.3 del Consiglio per i diritti umani dell’Onu del 16 Settembre 2025, dal titolo: “Analisi giuridica della condotta di Israele a Gaza ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione delcrimine di genocidio che è un documento di sala della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sul territorio palestinese occupato, inclusa Gerusalemme Est, e Israele istituita nel 2021 dal Consiglio dei diritti umani per indagare sulle presunte violazioni del diritto internazionale umanitario e gli abusi del diritto internazionale dei diritti umani nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est, e in Israele, ha concluso che Israele è responsabile di genocidio a Gaza.
Il rapporto si basa su precedenti indagini della Commissione, nonché sulle conclusioni fattuali e giuridiche relative agli attacchi compiuti dalle forze israeliane a Gaza e sulla condotta e le dichiarazioni delle autorità israeliane dal 7 ottobre 2023 al 31 luglio 2025.
Le conclusioni della Commissione si basano su un esame approfondito degli atti di genocidio (elemento oggettivo) e dell’intento genocida (elemento soggettivo) che stanno alla base dei fatti.
A dicembre del ’48, Einstein e Hannah Arendt cofirmarono una lettera premonitrice: «Nella comunità ebraica si è predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Nelle azioni di Begin il partito terrorista tradisce il suo reale carattere; dalle sue azioni possiamo giudicare ciò che farà nel futuro».
Si deve alla lungimiranza dei due illustri ebrei se ora capiamo meglio dove vuol arrivare questo Paese mediorientale, così ben armato che preferisce tenere aperti cinque fronti di guerra piuttosto di accettare la convivenza con chi laggiù abita da sempre. Gli conviene?
Agli israeliani, protetti dagli USA, si è condonata finora ogni lesione del diritto internazionale, benché la dichiarazione d’indipendenza proclami che «Israele sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite».
Al 15 novembre 2023, secondo dati diffusi dalla ong israeliana Peace Now, gli insediamenti israeliani in Palestina riconosciuti dal governo israeliano sono 146, mentre sono 144 gli avamposti istituiti senza l’approvazione del governo.
I coloni in Palestina sono 464.400, ovvero il 14% della popolazione che vive in territorio palestinese (escluse Gaza e Gerusalemme Est)
Inoltre, a Gerusalemme Est, occupata da Israele dopo il 1967, i quartieri interamente israeliani sono 14, per un totale di 230 mila abitanti.
Secondo il Report 2022 sulle colonie Israeliane nei Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est, redatto dalla rappresentanza dell’Unione Europea in Palestina, nel 2022 sono state registrate 28.208 unità abitative in stato di avanzamento in Palestina (compresa Gerusalemme Est), rispetto alle 22.030 del 2021, pari a un aumento di quasi il 30%.
Possibile che un popolo così dotato sia capace di tali efferatezze a Gaza?
Possibile che un piccolo Stato tenga in scacco da decenni una superpotenza?
Il Governo Netanyahu ha optato per la soluzione di “uno Stato” apartheid.
L’occupazione militare ha eroso il Paese dall’interno, mettendo in pericolo la sicurezza stessa che dovrebbe garantire.
L’hanno capito anche l’ex-presidente della Knesset, Avraham Burg, e l’ex-premier Olmert, che non da ieri scongiurano di «salvare Israele da se stesso».
Il presente articolo è ispirato da un precedente articolo di: Giuseppe Cassini, e ne integra interi paragrafi,
pubblicato sul sito del CRS con il titolo “Forse non avevamo capito dove volesse arrivare Israele”
https://centroriformastato.it/forse-non-avevamo-capito-dove-volesse-arrivare-israele/
e ripubblicato 07-08-2025 sul sito Volere La Luna con il titolo “Il sogno di Israele: annientare i palestinesi”
https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/08/07/il-sogno-di-israele-annientare-i-palestinesi/
Giuseppe Cassini
Giuseppe Cassini è stato consigliere diplomatico di numerose sedi italiane di quattro ministri dell’Ambiente. È autore di “Gli Anni del Declino. La politica estera del Quinquennio 2001-06” (Mondadori, 2007) e collabora a quotidiani e riviste, tra cui il manifesto e Il Fatto Quotidiano.
Il presente articolo integra quasi completamente un articolo di Beatrice Guarrera pubblicato su Vatican News con il titolo “Gli insediamenti israeliani in Palestina, dalle origini a oggi”



